Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 08 Mercoledì calendario

Nella notte dei soprusi al G8 di Genova tra calca, sangue e tante botte. Cestaro aveva 62 anni, ma sembrava già più vecchio della sua età. Era arrivato in città con un pullman di Rifondazione Comunista. Quella sera cercava un tetto sotto al quale dormire e si ritrovò con un braccio, una gamba e dieci costole spezzate. «Vecchio, dovevi restare a casa» urlavano mentre gli spaccavano le ossa nella palestra

Arnaldo Cestaro fu uno dei primi ad uscire. Si agitava sulla barella, e vedere quella sua smorfia di dolore fu quasi un sollievo, perché i due che lo avevano preceduto sembravano morti. Un ragazzo dai capelli neri era riverso sui fianchi, inerte, con gli occhi chiusi, la maglietta lacerata. Poi gli infermieri portarono fuori Lena, la ragazza tedesca dai lunghi dreadlocks. Aveva la faccia coperta di sangue, il braccio destro penzolava dalla lettiga. Al suo passaggio due giornalisti si fecero il segno della croce.
Al pensionato vicentino avevano spaccato un braccio, una gamba, dieci costole. Il significato delle urla che uscivano dalle finestre al primo piano della scuola Diaz diventava sempre più chiaro. La strada era stretta, nella calca non passava nessuno. Il G8 era finito da poche ore, c’era aria di smobilitazione e all’improvviso eravamo tutti spettatori del caos totale, di un massacro evidente frutto di una ritorsione, di una vendetta abnorme. A ogni possibile occasione, che sia l’uscita del film omonimo o la condanna in Cassazione dei dirigenti responsabili di quel blitz, sembra sia un dovere ricordare cosa è stato. Cosa ha rappresentato la Diaz per una intera generazione che dopo Genova ha detto basta, resto a casa. E forse proprio allora l’apatia e la rabbia, il rifiuto della politica ufficiale, hanno cominciato a tramandarsi sgocciolando fino a oggi.
La causa è l’ingiustizia evidente di quella notte, il rapporto di forza che più squilibrato non si poteva, armati contro inermi, il sopruso, la brutalità esibita con compiacimento. Non poteva esserci compensazione per quello sfregio. La ferita è rimasta aperta anche per via di uno Stato che mai tramite un’assunzione di responsabilità ha chiesto davvero scusa. Gli autori materiali delle torture riconosciute come tali e condannate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo non hanno mai avuto un nome, e neppure una faccia. A Strasburgo, forse è il passaggio più umiliante di questa sentenza, sono convinti che i vertici della Polizia dell’epoca non abbiano esattamente dato l’anima per aiutare i magistrati a identificare i responsabili. «La polizia ha potuto impunemente rifiutare la necessaria collaborazione, per identificare chi poteva essere implicato negli atti di tortura... Tutto ciò non è imputabile agli indugi o alla negligenza della Procura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare e prevenire».
I dirigenti che componevano la catena di comando hanno pagato, a vario titolo e dopo molto tempo. Alcuni torneranno in servizio presto. Addirittura tra un mese, al massimo entro ottobre. Sono tre funzionari, gli unici tra quelli condannati per aver falsificato le prove della mattanza ad aver ottenuto dal tribunale di Genova l’affidamento ai servizi sociali al posto degli arresti domiciliari toccati in sorte ai colleghi condannati con loro. In questo modo oltre alla pena si estingue l’interdizione dai pubblici uffici, che per tutti gli altri scadrebbe invece alla fine del 2018.
Il primo che potrebbe riprendere servizio è proprio il vicequestore del reparto mobile di Roma Pietro Troiani, una figura importante in quella storia sporca di coperture e omissioni che ha impedito di arrivare alla verità. Fu lui a portare all’interno della scuola le molotov false che dovevano rappresentare la prova della pericolosità dei no global. Era la cerniera tra le due polizie di quella notte, la catena di comando e la manovalanza violenta dei celerini. Ancora qualche settimana e per lui tutto sarà come prima. E pazienza se le 66 pagine giunte da Strasburgo infieriscono soprattutto sul «depistaggio sistematico» e la mancata collaborazione con gli inquirenti che impedì di dare un volto alla barbarie.
«Il crollo delle mie illusioni è quel che mi ha fatto più male. Sono uno cresciuto con il mito della Resistenza, di un Paese giusto. Prima di quella notte credevo a uno Stato e alla sua Polizia democratica. Quando entrarono pensai a dei teppisti. Erano uomini delle istituzioni, invece. Hanno fatto cose indicibili. E nessuno ha mai riconosciuto questo abominio. È per questo che sono andato a cercare uno spiraglio di luce da un’altra parte. Meglio di niente». Cestaro aveva 62 anni, ma sembrava già più vecchio della sua età. Era arrivato a Genova con un pullman di Rifondazione comunista. Quella sera cercava un tetto sotto al quale dormire, i suoi amici erano ripartiti in fretta dopo gli scontri del pomeriggio. Fu una insegnante della scuola conosciuta in corteo che lo spedì alla Diaz. Il ricorso accolto dalla Corte europea per i diritti dell’uomo è suo. «Vecchio, dovevi restare a casa» urlavano mentre gli spaccavano le ossa nella palestra. La sentenza di Strasburgo ci condanna a quel che sapevamo già, alle nostre inconfessabili vergogne di Stato. Ma almeno mette un punto fisso. Perché il ricordo senza giustizia è solo un esercizio di stile.