Corriere della Sera, 7 aprile 2015
Il caso di Rolling Stone e del falso scoop sullo stupro alla University of Virginia. Una bufala smascherata da un report della scuola di giornalismo della Columbia University: «Un fallimento giornalistico che si poteva evitare»
Furono i dettagli, a convincerla. Il modo in cui Jackie – il nome di fantasia di una studentessa della University of Virginia – raccontava, con dolorosa precisione, chi, come e quando l’aveva stuprata. Settembre 2012, il suo primo anno al college. Un ragazzo, l’invito a una festa. La stanza buia, al piano rialzato. L’orologio che segna la mezzanotte e 52 minuti. Le voci degli altri ragazzi, il corpo di uno di loro che le si getta addosso. E le parole: «Prendile quelle fottute gambe».
Sabrina Rubin Erdely, navigata reporter di Rolling Stone, pensò di avere tra le mani una storia terribile, ma anche importante: una storia che poteva mettere in luce il problema delle violenze sessuali nei campus statunitensi e nelle fraternity, le «confraternite» spesso fuori controllo per abuso di alcol e droghe. Ma quella storia – pubblicata il 19 novembre scorso – è stata ritrattata ieri dal prestigioso magazine statunitense, dopo che un report pubblicato dalla scuola di giornalismo della Columbia University di New York l’ha definita «un fallimento giornalistico che si poteva evitare». «Non è chiaro che cosa sia successo esattamente a Jackie», dice al Corriere il preside della scuola di giornalismo e co-autore del rapporto, il due volte premio Pulitzer Steve Coll. «La polizia locale non ha trovato riscontri al suo racconto. Ma la colpa di quanto accaduto non è di Jackie. Quanto ha raccontato alla reporter non era affidabile: ma l’errore è che nessuno, al magazine, se ne sia accorto».
Poco c’entrano, stavolta, le accuse al ritmo imposto dal web ai giornalisti: la Erdely aveva intervistato Jackie 7 volte, e la storia, prima che fosse pubblicata (e diventasse l’articolo più letto di sempre sul sito di Rolling Stone tra quelli non relativi alle star) era stata riletta da sei persone, tra cui un avvocato e due capiredattori.
Eppure, si legge nel report, «sono stati commessi errori elementari». A ogni livello: nella ricerca delle notizie, nel processo di revisione della storia, durante la fase (solitamente molto accurata) del fact checking, la verifica di ogni dettaglio degli articoli. Che c’è stato, eccome: il correttore ha passato 4 ore al telefono chiedendo a Jackie se i dettagli inseriti nel pezzo fossero corretti. «Lei non solo diceva di sì: li correggeva».
«Il punto, in questo caso, è semplice: gli errori commessi sono stati fondamentali. Sono stati infranti gli standard che Rolling Stone ha sempre mantenuto», spiega al Corriere Lynnell Hancock, docente di teoria del giornalismo a Columbia. Ma allora, che è successo? «La giornalista è stata, a ragione, molto attenta di fronte al trauma di Jackie. E si è spinta troppo in là: evitando di fare qualunque cosa potesse sembrare, alla ragazza, come un tradimento, e convincendo di questo i suoi superiori. Niente domande scomode. Niente verifiche. Nessuna telefonata a chi sarebbe stato alla festa con lei».
I danni, spiega il rapporto, sono enormi. «Gli errori della rivista potrebbero aver diffuso l’idea che molte donne inventino di essere state violentate»: mentre ciò avviene tra il 2 e l’8 per cento dei casi. «Quel che temo è che i reporter smettano di occuparsi di stupri nei campus», dice Hancock. «Un tema che fino a poco fa era stato tenuto colpevolmente nascosto».
Contrariamente ad altri episodi del passato – come quello di Jayson Blair al New York Times o di Stephen Glass alla New Republic, licenziati per avere inventato delle storie – Rolling Stone ha deciso che non farà rotolare alcuna testa, e che non saranno riviste le pratiche giornalistiche della redazione. Quanto alla credibilità del sistema, Coll fa notare come l’idea del giornale di chiamare reporter indipendenti a verificare gli errori del magazine sia stata coraggiosa. «Lo hanno fatto per imparare dai propri errori. E credo sappiano che la credibilità è tutto ciò che resta, ora, ai giornali».