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 2015  aprile 07 Martedì calendario

Ad entrare nell’Ue l’Islanda non ci pensa proprio. Sette anni fa era in ginocchio e ora che si è ripresa ritira la sua candidatura. Gunnar Bragi Sveinsson, ministro degli Esteri: «Non crediamo nell’Europa come forte entità politica, e Bruxelles forte potere burocratico senza volto che vuol decidere tutto lontano dalla gente»

La movida giovanile è tornata, si scatena di sera anche d’inverno al B5 a Bankastraeti, o al bar dell’elegante hotel 101, qui nel delizioso centro di Reykjavik: birra a fiumi, flirt e danze fino all’alba. Kringlan e Smàralind, i due enormi shopping center della minuscola capitale, sono sempre pieni, i turisti atterrano in massa ogni mese per godersi la Blue lagoon e i geyser, whale-watching, cavalli e vulcani: difficile trovare un albergo se vieni qui in corsa. E anche altro ti dà il polso dell’economia risorta: cantieri edili ovunque, a ogni angolo nuove sedi di aziende start-up. Devi svegliare ricordi in letargo, per rammentare che appena sette anni fa qui “Kreppa” e “Hrun”, cioè la grande crisi finanziaria e il crac a un passo dal default, stavano per cancellare dal mondo questa piccola, vivace nazione. Sorprese a catena, ecco l’Islanda. Perché proprio da qui, dalla piccola Reykjavik che si rimise in piedi da sola, è arrivato lo schiaffo più inatteso e duro all’Europa unita: una breve lettera alla Commissione, poche frasi cortesi ma gelide per dire addio: l’Islanda ha ritirato la sua candidatura a membro della Ue, il Grande sogno non le piace più. La scelta spacca il paese come non mai dall’indipendenza. Divide la società e le élite, tra gli islandesi fieri di avere il più alto numero di scrittori per abitante al mondo, e la cantante Björk come donna più famosa.«Se la Commissione europea finge d’ignorare la nostra lettera e non ci risponde, c’insulta e non ci rispetta: noi non siamo più candidati all’ingresso nella Ue. Non crediamo nell’Europa come forte entità politica, e Bruxelles forte potere burocratico senza volto che vuol decidere tutto lontano dalla gente». Gunnar Bragi Sveinsson, il giovane ministro degli Esteri (del Partito progressista, cioè ex agrari, membro col Partito dell’Indipendenza della coalizione di destra al potere) mi riceve gentile, e parla senza peli sulla lingua. «Non vogliamo più negoziare», aggiunge. «È questione di difendere interessi, sovranità e identità nazionali. L’Europa politica ha avuto e vuole troppa devolution di poteri dai governi nazionali. Dovrebbe restituirne ai singoli Stati. E i politici europei dovrebbero ascoltare scetticismo preoccupazioni e timori della gente. Anche verso i problemi che una valuta unica crea tra economie così diverse».Toni euroscettici, ma morbidi. Evocano anche “Il mostro soft”, il pamphlet di Enzensberger contro Bruxelles. Eppure, fa notare Salvoer Nordal, filosofa alla modernissima università di Reykjavik con computer pubblici gratis per tutti a ogni angolo, «l’altra domenica sono scesi in settemila in piazza contro il governo. Un’esigua maggioranza di cittadini non vuole l’ingresso nella Ue, però la gente esige il referendum che l’esecutivo aveva promesso, non questa scelta senza ascoltare gli elettori». Pure, ammette, i problemi esistono: «Ci sentiamo europei, ma Bruxelles appare verticistica, antidemocratica. All’Europa, come ammonì lo scrittore Matthias Johannessen, diciamo sì con la ragione e no col cuore».È l’onda lunga di “Kreppa e Hrun”: l’incubo di quei due mostri è per la democrazia islandese quasi come il “passato che non passa” dei tedeschi o degli ex sudditi di Mosca. «Quando la crisi finanziaria del 2008 investì e distrusse il nostro sistema bancario, bruciò d’un colpo il 40 per cento del prodotto interno cioè ben più del 25 perso in anni dalla Grecia, e la corona crollò di metà del suo valore», racconta Einar Karason, romanziere ed editorialista liberal. Difficile immaginarlo oggi mentre passeggiamo nel vecchio porto dei pescatori ora reinventato come location di designer e locali di tendenza, dove la nuovissima Concert Hall con un’acustica degna della Philarmonie di Berlino domina gli attracchi di pescherecci e baleniere. Eppure fu così. «Ci credevamo i più bravi finanzieri del mondo, fummo brutalmente costretti a guardarci allo specchio. E ad accet- tare quanto decideva il Fondo monetario; via, la verginità di sovranità e identità nazionale al fondo la perdemmo allora, questo governo cavalca umori inquietanti, certi ultrà parlano dell’europeismo come di chimera di noi intellettuali “radical chic del latte macchiato”». Le sinistre democratiche gestirono il risanamento, e pagarono perdendo poi il potere.Animosità, muri nelle teste, paure nuove e insieme ancestrali come quelle degli eroi cupi del grande Halldòr Laxness, il Nobel letterario islandese: ecco il vaso di Pandora che “Kreppa e Hrun” hanno lasciato aperto. Tagli durissimi, salari e pensioni dimezzate, contratti a termine anziché carriere in banca per i giovani, ecoturismo, bio-agroalimentare. E poi ritorno alla pesca e all’alluminio, comparti tradizionali: così l’Islanda si è salvata. Ma nuovi muri restano.«L’economia ora tira solida, crescita al 2-3 per cento, debito appena al 50 del pil, disoccupazione ai minimi europei, i turisti sembrano quasi troppi, però le restrizioni valutarie all’export di depositi restano», ricorda Karl Blondal, editorialista del filogovernativo Morgunbladid, primo media nazionale. «E non solo: prima della crisi, eravamo i più antielitari del mondo. Figli di pescatori e di armatori nelle stesse scuole. Quei nuovi giovani banchieri d’assalto crearono idee di caste più uguali degli altri. Idee loro sopravvissute, anche se un mese fa quattro di loro hanno avuto pesantissime condanne detentive per i danni al Paese». Sullo sfondo, insiste anche lui, la Ue “mostro soft” risveglia spettri e timori antichi: limiti alla sovranità sulle acque della pesca, prima di tutto (negli anni ‘80 la guardia costiera islandese le difese contro la Royal Navy), quote agricole, norme a non finire. «E la sensazione diffusa – concordano qui commentatori d’ogni parte – che a Bruxelles i Paesi grandi siano più uguali degli altri: la Francia ha avuto tre anni in più per risanare, i minori no».Partita aperta, a Rejkyavik sotto il freddo sole di fine inverno. La gente non ama la Ue, eppure il governo di destra che le ha voltato le spalle precipita nei sondaggi. «Voliamo, apparentemente al primo posto, noi Pirati che chiediamo vera democrazia, e non una difesa degli armatori nazionali contro Bruxelles travestita da difesa del paese da questi politici- piovra», afferma Birgitta Jònsdottìr, la loro popolarissima leader. Qua e là intanto, ammonisce lo scrittore Karason, nei blog e nei dialoghi radio e tv col pubblico si sentono frasi xenofobe mai udite prima. «Non subimmo né fascismo, né guerre né occupazioni, non puoi escludere che, se troverà leader abili, un populismo forte nasca anche da noi», avverte triste Salvoer Nordal. Crisi peggio che greca superata ma viva nella Memoria, stanchezza d’Europa, futuro imprevedibile: «È come – spiegano nella capitale – quando ammiri il raggio verde dell’Aurora boreale e non sai se dopo verranno sereno o tempesta».