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 2015  aprile 07 Martedì calendario

Non è un Paese per scienziati. Perché versiamo il 13% del totale investito in ricerca dall’Ue mentre i progetti presentati da italiani riportano a casa solo l’8% del totale? Ce lo spiega uno dei pochi connazionali che coordina un progetto europeo di ricerca

Ogni tanto ci accorgiamo che l’Italia è un grande sostenitore della ricerca. Versiamo il 13% del totale investito in ricerca dai paesi membri dell’Unione Europea. Peccato che i progetti di ricerca presentati da italiani riportino a casa solo poco più dell’8% del totale. Insomma, il 5% che non prendiamo sostiene la ricerca degli altri. In questi giorni il fenomeno è molto commentato.
Sono uno dei troppo pochi italiani che coordinano un progetto europeo, e parlo per esperienza personale. Confezionarlo non è stato facile: le procedure sono molto complesse. Per un ricercatore il muro burocratico è invalicabile. Ci vogliono guide esperte che lo conducano attraverso i meandri di bilanci, mesi uomo, deliverables, milestones, overheads, costi diretti, costi indiretti, Dow, work packages, tasks, diagrammi di Gantt e altre diavolerie. Chiedo scusa per l’inglese, ma molte parole non hanno traduzione e fanno parte del gergo dei progetti. I ricercatori «normali» parlano un inglese che neppure i madrelingua capiscono: l’inglese tecnico. Ma sono analfabeti di inglese burocratico. Molti progetti sono bocciati non per cattiva scienza ma per confezionamento scorretto. I ricercatori sono costretti a cimentarsi in imprese che non li vedono preparati. Senza amministrativi preparatissimi e volenterosi, l’insuccesso è quasi assicurato. Inutile dire che in molte amministrazioni italiche se un documento è in inglese ti chiedono di tradurlo! Le procedure europee sono astruse, ma poi si sommano con le follie burocratiche nostrane. Da noi, una volta vinto un progetto, rispettare le procedure per spendere i soldi è un lavoro più complicato della ricerca stessa.
A monte delle chiamate progettuali esiste, inoltre, una sorta di competizione e di negoziato tra i vari Stati per suggerire temi di interesse per la propria comunità scientifica. Ogni Stato ha i suoi lobbisti che operano nelle commissioni. I paesi «furbi» prima identificano i loro migliori ricercatori, i temi che trattano, e poi suggeriscono proprio quei temi, ottenendo maggiori probabilità di vincere. Spesso, nelle strategie italiane, chi può suggerire suggerisce i propri temi, o quelli di qualche amico, e poi non vince. Nelle competizioni nazionali è matematico che l’amico del potente vinca, ma in quelle europee no. Non basta essere amici di qualcuno.
Abbiamo fatto la valutazione del sistema della ricerca italiana, sappiamo chi ha le carte in regola per vincere progetti. Dovremmo lavorare per suggerire i temi in cui esprimiamo forti competenze. Ma pensare che debba essere favorito chi più merita, da noi è uno scandalo. Così può capitare che a decidere ci siano persone che hanno ricevuto valutazioni negative o che non sono neppure state valutate. Potranno prendere posizioni che non li avvantaggeranno? Ovviamente il vantaggio di veder proposto il proprio tema svanisce se non si riesce a vincere la competizione con gli altri paesi. E noi non vinciamo.
Ma non basta vincere i progetti e avere i soldi. Dipende anche come sono investiti. Ho visto le tematiche privilegiate nei nuovi piani, sia nazionali sia europei. Riguardano quasi esclusivamente le scienze applicate, mirate a produrre ricchezza e, ovviamente, posti di lavoro. Manca totalmente la ricerca di base. La ricerca e lo sviluppo hanno risvolti esclusivamente tecnologici o medici.
La ricerca di base è, per definizione, la base della scienza. E l’innovazione è per definizione inaspettata: non si prevede, e si ottiene battendo strade inesplorate. Per il semplice gusto di identificare aree di ignoranza e di lavorare per ridurla, senza pensare alle possibili applicazioni, semplicemente per aumentare la conoscenza. L’innovazione che ha portato alle conquiste odierne si basa su elaborazione di conoscenze di base. Nel nostro paese questa ricerca è stata annichilita e si è pensato solo alla scienza applicata. Il motivo? La scienza non è considerata cultura, e non a caso abbiamo pensato di darle un pochino di dignità istituendo il ghetto della settimana della cultura scientifica. La scienza di base è la base culturale della scienza. È quella che distingue la scienza dalla tecnica e, di conseguenza, gli scienziati dai tecnici (con tutto il rispetto per i tecnici).
Dato che le applicazioni tecnologiche derivano dalla scienza applicata, si è pensato bene di investire tutto in quella direzione, considerando la scienza di base un lusso che non ci possiamo permettere.
Come sempre avviene in sistemi complessi, le cause del degrado scientifico del paese sono molteplici. Dietro a tutto sta, comunque, una atavica diffidenza nei confronti della scienza da parte degli «uomini di cultura» che la considerano un’attività di serie B e le chiedono solo di risolvere problemi contingenti. Come se la conoscenza si potesse acquisire per altre strade. Inutile dire che i soldi non bastano per costruire una buona comunità scientifica. Prima ci vuole la cultura.
(Università del Salento, Cnr-Ismar)