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 2015  aprile 03 Venerdì calendario

In morte di gran maestro. A 106 anni se ne va Manoel De Olivera, il cineasta più libero della storia. E uno dei più prolifici

Manoel de Oliveira era una figura così straordinaria che se ne potrebbe parlare per ore senza accennare ai suoi film. Al tempo stesso era un regista così capace di porre sempre nuove sfide, a se stesso, al cinema, agli spettatori, che si potrebbe parlare per giorni solo dei suoi film dimenticandosi dell’autore, che in essi si nascondeva alla perfezione pur identificandovisi profondamente come ogni vero artista.
Ora che è morto, a 106 anni, bisognerà tentare di ricomporre l’enigma e assegnare ai suoi numerosi, diversissimi lavori il posto che meritano, senza farsi abbagliare dai molti record che detiene. Magari chiedendosi come mai una figura così unica ed emblematica sia nata proprio in quel lembo di Occidente chiamato Portogallo.
Il suo primo film, Douro, faina fluvial, un documentario di 21 minuti che lo impose subito alla critica, risale infatti al 1931. L’ultimo, Gebo e a sombra, era a Venezia nel 2012 (da allora ha girato altri tre corti). Ma il prolifico de Oliveira, che dalla fine del ’900 in poi sfornava più o meno un film all’anno, non è solo il regista con la vita e la carriera più lunghe che il cinema ricordi. È anche l’unico rimasto in sella per tanto tempo senza aver mai conosciuto un solo vero successo di pubblico, almeno nel senso banale del termine.
Quasi che la sua eccezionalità dovesse nutrirsi di una totale, serena indifferenza alle leggi del mercato e di una quieta, incrollabile fiducia in se stesso – in ciò che i suoi film avevano da dire per chi aveva la pazienza di guardarli, anche se sembravano scorrere in un fiume parallelo a quello del resto del cinema.
A forza di libertà (e di prestigio), negli ultimi vent’anni aveva finito per lavorare con attori molto noti, e magari inclini a un certo “collezionismo”, come il quartetto di Un film parlato (Deneuve, Sandrelli, Papas, Malkovich), il Piccoli del magnifico Ritorno a casa, o il Mastroianni dell’abbagliante Viaggio all’inizio del mondo. Tre film limpidi, per una volta, forse perché non avevano dietro testi letterari, come spesso accadeva, ma storie narrategli proprio da attori: Renato De Carmine per Ritorno a casa (De Carmine era co-protagonista del fluviale Parola e utopia, sul gesuita missionario nel Brasile del ’600, padre Antonio Vieira) e Yves Afonso per Viaggio all’inizio del mondo
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ENIGMI E TRABOCCHETTI
De Oliveira infatti non era tipo da ripetersi. Pur ruotando intorno a nuclei ricorrenti – l’enigma dell’immagine, gli inganni della memoria, le trappole (spesso comiche) del desiderio, ma soprattutto l’inesauribile, misterioso splendore del mondo – i suoi film potevano essere diversissimi. Alcuni duravano pochi minuti, altri molte ore (quasi sette Le soulier de satin, da Claudel; «solo» tre i bellissimi Francisca, da un episodio nella vita del suo scrittore prediletto, Camilo Castelo Branco, e La valle del peccato, riscrittura attuale di Madame Bovary ordinata ad Agustina Bessa Luis, romanziera e sua fedele complice, una meraviglia)..
Quasi tutti ostentavano una messa in scena frontale, con inquadrature fisse accese da immagini sorprendenti, e un uso generoso quanto inventivo della parola. Il tutto reso imprevedibile, malgrado la lentezza, da un’intelligenza che trascinava lo spettatore in un gorgo di congetture, illusioni, sfide al senso comune. Ma sempre evitando la stravaganza o la maniera.
Il paradosso che un autore così geniale e prolifico fosse nato in un cinema così periferico finì per renderlo ingombrante. Celebre l’ammirata invettiva di un altro grande portoghese (ma più maledetto), João Cesar Monteiro: «Il paese possiede (inspiegabilmente) un regista troppo grande per le sue dimensioni. Per cui, delle due l’una: o ingrandiscono il territorio, o accorciano il cineasta». De Oliveira, da parte sua, avrebbe continuato ad ampliare il suo universo aggiungendo nuovi tasselli fino alla fine. Per quanto imbevuta di cultura portoghese la sua opera, vasta e molteplice, appartiene al mondo. E a un cinema sempre troppo distratto per rendersene conto.