Il Messaggero, 3 aprile 2015
Se il vero problema dell’Europa non è la Grecia ma l’Italia, un Paese che senza i tagli di Cottarelli rischia l’asfissia fiscale
Il Wall Street Journal scrive che tutti fanno finta di niente, ma il cuore del problema dell’auroaerea non è la Grecia ma l’Italia. Perché la Grecia è come il canarino usato nelle miniere per avvisare delle fughe di gas grisou prima che uccida i minatori, ma la bassa crescita ventennale e l’alto debito italiano sono la vera mina. Una semplice regoletta che, per essere ben sostenibile, il debito pubblico non deve costare all’anno più della crescita nominale di un paese, cioè della somma dell’inflazione.
Nell’anno di ripresa che tutti speriamo sia il 2015, gli interessi sul debito pubblico scenderanno grazie alla Bce di 4-6 miliardi rispetto ai 76-80 in media degli ultimi due anni, cioè saranno sotto il 5% del Pil. Martedì il nuovo Def del governo ci dirà che la crescita attesa del Pil nel 2015 sarà intorno a +0,7%, con speranze di arrivare fino all’1%. Ma poiché dobbiamo scordarci un’inflazione che si scosti dall’attuale livello 0 se non verso l’1%, ecco che mancano ancora 3 punti di Pil di differenza per pareggiare l’onere del debito. Di conseguenza, il debito pubblico continuerà a crescere. Il Pil nominale italiano è salito solo di 6 miliardi dal 2007 al 2014, il debito pubblico di 529miliardi.
Abbiamo scritto e ripetiamo che oggi, non a fine anno, servirebbe una manovra di finanza pubblica per rafforzare i primi segni di ripresa che si cominciano a intravvedere, ma sono ancora esili. Ma per essere realisti, bisogna considerare lo stato dei conti pubblici, e gli effetti delle decisioni sin qui assunte dal governo. Come si sia chiuso il 2014, lo ha ricordato ieri l’Istat. La pressione fiscale è salita e non scesa, al 43,5% del Pil. Le entrate pubbliche totali sono salite e non scese, al 48,1% del Pil. La spesa pubblica è salita e non scesa, di un altro +0,8% del Pil fino a quota 51,1%. Abbiamo chiuso l’anno con un deficit pubblico di pochissimo sopra il 3% del Pil. Nessuna procedura d’infrazione europea, grazie alla nuova interpretazione venuta da Bruxelles del patto di stabilità corretto per il ciclo. Di fatto, il governo un anno fa ha compiuto una scelta. Concentrare per il 2014 e 2015 tutte le munizioni sul bonus 80 euro, confermato quest’anno (vale oltre 10 miliardi di euro l’anno), e sulla decontribuzione per i nuovi contratti a tempo indeterminato (poco meno di 2 miliardi nel 2015, che non basteranno). Ma ha tenuto nel cassetto le proposte di Cottarelli per tagliare la spesa. Cottarelli proponeva in dettaglio 34 miliardi di minor spesa nel triennio fino al 2016, ma cominciando dal 2014. Nella legge di stabilità 2015, i tagli sono stati a malapena di 1,5 miliardi per ministeri ed enti pubblici centrali, e di 5,1 miliardi tra Regioni, Province e Comuni (il dettaglio è ancora in corso di elaborazione tra governo e Autonomie, e siamo ad aprile...).
La conseguenza di tale scelta è stata aver dovuto iscrivere nella legge di stabilità, per gli anni 2016-2018, clausole di salvaguardia fiscale attraverso aumenti di Iva, accise e imposte per l’equivalente dei tagli di spesa che Cottarelli proponeva come strategia alternativa. A cominciare da 16 miliardi di aggravi per il 2016. Per conseguenza, oggi il governo è costretto a dire- vedi le dichiarazioni del viceministro Morando in questi giorni – che l’obiettivo ottimale sarebbe sì di azzerare l’aggravio di imposte sul lavoro rispetto alla Germania in 3 anni, che vale circa 36 miliardi di euro, ma che intanto i tagli di spesa che si spera di iniziare a definire ora devono avere come finalità vera l’annullamento dei 16 miliardi di maggiori entrate già previsto per il 2016, e sulla base del quale abbiamo evitato la procedura d’infrazione europea. I 6 miliardi che mancano a pareggiare il conto sono quelli che il Tesoro si aspetta di risparmiare sui minori interessi del debito pubblico, grazie alla Bce.
Come si vede, il governo si è messo in un cul de sac. Non aver seguito la strada Cottarelli lo ha obbligato a promettere in Europa più tasse. E avendo rinviato i tagli, se li fa ora non si traducono in meno imposte che servirebbero subito per rafforzare la ripresa, ma al più eviteranno che imposte e tasse continuino ulteriormente a salire. Altro che l’abbattimento pieno del cuneo fiscale rispetto alla Germania. E l’equazione è ancora più complessa: perché nel frattempo bisognerà finanziare il bonus 80 euro con 10 miliardi anche nel 2016 senza estenderlo, e bisognerà altresì rifinanziare i 2 miliari di decontribuzione per i nuovi contratti a tempo indeterminato anche per il 2016…. È per questo che il governo vorrebbe restare al 3% di deficit anche quest’anno e l’anno prossimo, invece di scendere all’1,7% come promesso alla Ue. Mentre il ministro Padoan fa riservatamente presente che sarebbe un errore aggiungere alle tensioni irrisolte sulla Grecia anche una riapertura del dossier italiano.
Aspettiamo dunque il Def che l’esecutivo dovrebbe varare martedì prossimo. Ma al governo sanno benissimo che la tenue ripresa del reddito disponibile delle famiglie, + 0,2% nel 2014, può accrescersi e tradursi in maggiore domanda interna solo se si interviene ora, con minori imposte. Le imprese vengono chiamate a fare il loro dovere, ma non è che ci si possa dimenticare che i loro profitti nel 2014 sono scesi ai minimi dacché l’Istat li rileva come serie storica, cioè da 20 anni.
Se dalla spesa pubblica sottraiamo quella per interessi, restano circa 750 miliardi. Se a questa cifra sottraiamo quella per stipendi e pensioni, restano circa 250 miliardi, per oltre metà rappresentati dai consumi intermedi della Pa. Realizzati da 35mila stazioni d’appalto e d’acquisto. È ora, il momento per accorpare con decisione quelle migliaia di centri di spesa, di tagliare opacità e corruzione, e risparmiare un buon punto di Pil solo su questa voce in 3 anni: ma cominciando subito. Tutto ciò che verrà rinviato, si tradurrà in una sola cosa: la necessità di far quadrare i conti con più fisco. Ma, come chiunque può comprendere, per un paese a forte debolezza polmonare l’asfissia fiscale è l’ultimo dei rimedi.