la Repubblica, 3 aprile 2015
Il rom-tour di Matteo Salvini. Eppure la presenza quasi ossessiva del capo leghista tra quelle lamiere, quegli stracci, quelle stoppie, non è raffrontabile con quella di altri leader politici, che in quei campi non hanno più il coraggio di avventurarsi
La tournée di Matteo Salvini nei campi nomadi (ieri a Milano Chiesa Rossa) ha oramai più date del Neverending Tour di Bob Dylan. Metterne in evidenza gli aspetti propagandistici sarebbe più facile se la presenza quasi ossessiva del capo leghista tra quelle lamiere, quegli stracci, quelle stoppie, fosse raffrontabile con quella di altri leader politici. Magari per mettere a confronto parole diverse e intenzioni diverse spese, però, nello stesso scenario periferico e malandato. Così, purtroppo, non è. Su quelle trincee desolate la politica che conta non si avventura mai. Lo fanno i preti, i volontari, al massimo qualche sindaco e qualche assessore coraggioso. Non certo i pari-grado di Salvini. E dire che attorno a quegli snodi cigolanti della nostra vita sociale trascorre l’esistenza non solo dei Rom, ma di milioni di persone, italiane e straniere, che della parola “abbandono” si sentono testimoni fissi.
La demagogia è una brutta bestia, e Salvini sa come cavalcarla. Ma su quei terreni (non edificabili) dove la società è più brutta, più impaurita, più incattivita, la politica, specie quella che si considera virtuosa e/o operosa, non ha più il coraggio (o la coscienza, o l’incoscienza) di avventurarsi. Salvini, tra i tanti evidentissimi difetti, ha il pregio di non avere paura di sporcarsi la cravatta.