2 aprile 2015
Com’è successo che la Turchia è piombata nel terrore? Che responsabilità ha Erdogan e che cosa può accadere ora? Intanto, durante i funerali del magistrato sequestrato e ucciso martedì, ieri un uomo armato è entrato in una sede del partito islamico Akp e una kamikaze è stata freddata dopo un tentato assalto alla sede della polizia di Istanbul. Su tutto incombe l’ombra delle elezioni. Analisi sulla crisi di una democrazia illiberale
«Se in questi ultimi giorni si parla della Turchia è per alcune inquietanti notizie di cronaca, dal rapimento e uccisione di un magistrato da parte di un gruppuscolo estremista (che porta il nome grottescamente “retro” di Partito-Fronte di Liberazione del Popolo Marxista Rivoluzionario) all’irruzione di un uomo armato in una sede del Partito di governo, l’Akp – cui si aggiungono episodi come il falso allarme di una bomba a bordo di un aereo della Turkish Airlines e persino un misterioso generalizzato blackout elettrico. Nelle ultime ore si registra anche un attacco armato a una stazione di polizia» (Roberto Toscano) [Roberto Toscano, La Stampa].
Ieri tutta la nazione piangeva la morte del magistrato Mehmet Selim Kiraz, rimasto ucciso martedì nel blitz che avrebbe dovuto salvarlo. Non c’è stato nemmeno il tempo per riprendersi dallo choc che le televisioni hanno iniziato a diffondere immagini provenienti dalla parte asiatica di Istanbul, dove un uomo si era introdotto in una sede dell’Akp, il partito di Erdogan. Era armato, ma a sorpresa non ha aperto il fuoco contro nessuno, ha solo fatto uscire tutti e ha esposto una bandiera turca, sulla quale era rappresentata anche una scimitarra, dalla finestra dell’ultimo piano. Un gesto probabilmente isolato [Marta Ottaviani, La Stampa].
Nel pomeriggio poi un uomo e una donna hanno attaccato la questura centrale di Istanbul sulla Vantan Caddesi, nel quartiere di Fatih, uno dei distretti più conservatori della città, roccaforte dell’Akp. La questura è una specie di Alcatraz e i due attentatori non si illudevano certo di espugnarla. L’intento, probabilmente, era solo di colpire un luogo simbolo. In men che non si dica, infatti, una strada centrale della città si è trasformata in una zona di guerra. La gente, in attesa davanti agli uffici, si è tuffata, gridando, all’interno. Nello scontro a fuoco la terrorista, che pare indossasse un giubbotto esplosivo, si è subito accasciata al suolo, senza vita. Il suo compagno d’armi, invece, seppur ferito, ha cercato di scappare ma è stato arrestato [Monica Ricci Sargentini, Corriere della Sera].
A tutto questo si aggiungono due allarmi bomba su due aerei della Turkish Airlines. Sui velivoli non sono stati ritrovati ordigni, ma è bastato il solo sospetto a incrementare il senso di paura in un Paese che in questi giorni si sta scoprendo sempre più vulnerabile [Marta Ottavaini, La Stampa].
Ci sono infine le polemiche che riguardano le falle nella sicurezza. Il tribunale dove Kiraz è stato fatto prigioniero sulla carta doveva essere il più sicuro del Paese. Il Presidente Erdogan, complimentandosi con le forze antisommossa per il blitz di due sere fa, si è attirato le critiche della stampa di opposizione, che gli ha fatto notare che il primo obiettivo dell’attacco, ossia salvare Kiraz, era palesemente fallito [Marta Ottaviani, La Stampa].
Antonio Ferrari: «In altri tempi, quanto sta vivendo la Turchia in questi giorni avrebbe provocato un duro richiamo delle Forze armate, e forse qualcosa di assai più grave. Oggi però i militari sono stati depotenziati dal presidente Erdogan, ed è difficile immaginare i carri armati per le strade del Paese» [Antonio Ferrari, Corriere della Sera].
Roberto Toscano: «Sembra davvero passato molto tempo da quando la Turchia veniva considerata come una concreta dimostrazione della possibilità di un islam politico non solo compatibile con libertà e pluralismo, ma anche in grado di creare un’alternativa alle tendenze islamiste radicali integrando le masse di credenti su un terreno di democrazia e modernizzazione. Anzi, nel momento della cosiddetta Primavera Araba furono molti, sia in Medio Oriente che in Europa e negli Stati Uniti, ad accennare con interesse ad un promettente “modello turco”. Quella primavera è rapidamente sfiorita, ma è anche la Turchia a non essere più vista con quello stesso positivo interesse, e certamente non come modello» [Roberto Toscano, La Stampa].
Ancora Toscano: «Al centro della nostra analisi dobbiamo mettere la trasformazione di un leader, Recep Tayyip Erdogan, che – in una progressione costante – si sta spostando su posizioni sempre più autoritarie e personaliste. In Turchia sembra stia ormai emergendo un sistema politico che pur continuando a basarsi su un consenso ampiamente maggioritario si può ormai classificare sotto la definizione di “democrazia illiberale”. Come nell’evoluzione darwiniana, diventa difficile segnare esattamente il punto di passaggio da una variante della democrazia a un “regime”, ma fatti come la sistematica repressione dei giornalisti, la destituzione di giudici e poliziotti sgraditi al potere, i ripetuti rinvii a giudizio e condanne per “offesa al Presidente” e un’islamizzazione strisciante nel campo della cultura e dell’istruzione sono segnali non equivoci del graduale, ma ultimamente accelerato, strutturarsi di un regime» [Roberto Toscano, La Stampa].
La distanza fra avversari politici oggi non potrebbe essere più grande. Titola in prima pagina il quotidiano filogovernativo Akit: “Il giudice è stato ucciso dalla gente di Gezi Park”. Parole che hanno fatto infuriare molti giovani di Piazza Taksim, impegnati due anni fa a difendere gli alberi dalla colata di cemento, e dai reiterati tentativi di islamizzazione [Marco Ansaldo, la Repubblica].
Erdogan non è tanto la causa di una crescente debolezza dei laici quanto una sua conseguenza. Tanto più che il laicismo turco non si è affermato attraverso la maturazione graduale di un’intera società, ma sulla base della scorciatoia autoritaria di Atatürk, un modernizzatore di straordinarie doti politiche e grande visione progettuale, ma tutto meno che un democratico. E tanto più che al di fuori di una classe intellettuale urbana – in Turchia vasta ma certo non maggioritaria – il modello di Stato laico, mai condiviso da una «maggioranza silenziosa» di credenti, si è retto ed è arrivato ai nostri giorni grazie al periodico intervento dei militari [Roberto Toscano, La Stampa].
«C’è da pensare che questa instabilità e questa tensione gravissima, che la Turchia riscopre dopo 13 anni di guida solitaria e sicura del partito islamico-moderato, abbia altre ragioni. Per esempio lo scontro, che tutti cercano di annacquare ma che esiste, eccome se esiste, tra il presidente e il primo ministro Ahmet Davutoglu, che è pur sempre una sua creatura. Erdogan avrebbe da dire sulle liste per le cruciali elezioni parlamentari del 7 giugno. Probabilmente i candidati li vorrebbe scegliere lui, invece del primo ministro che è anche il leader eletto del partito Akp» (Antonio Ferrari) [Antonio Ferrari, Corriere della Sera].
Le elezioni politiche in Turchia si terranno il prossimo 7 giugno. Saranno consultazioni chiave perché l’Akp, il partito per la Giustizia e lo Sviluppo che guida il Paese dal 2002, dovrà assolutamente ottenere i due terzi dei seggi in parlamento, soglia necessaria per portare avanti le riforme costituzionali per il presidenzialismo forte che stanno tanto a cuore a Erdogan [Marta Ottaviani, La Stampa].
Secondo alcuni l’improvvisa impennata di violenza giocherebbe a favore di Erdogan spingendo gli elettori, oggi in fuga verso i nazionalisti del Mhp, a votare per la «stabilità» del partito al potere. I sondaggi danno l’Akp in forte perdita di consensi (39-40% contro il 50% delle politiche del 2011) [Monica Ricci Sargentini, Corriere della Sera].
La campagna terroristica a pochi mesi dalle elezioni parlamentari offre poi al governo una chance su un piatto d’argento. A partire dalla possibilità di spingere sul controverso progetto della legge sulla sicurezza, che consente alla polizia di arrestare, detenere e anche affrontare con l’uso delle armi i manifestanti [Renzo Guolo, la Repubblica].
Ma la Turchia non è solo al centro di tensioni interne, con le elezioni alle porte, e un accordo ormai saltato per diffidenze reciproche fra partito islamico e fazione curda. I nodi sono soprattutto all’estero. Marco Ansaldo: «Ankara non ha risolto la propria posizione sul cosiddetto Califfato islamico. Barack Obama chiede a Erdogan una presa di distanza chiara, tuttora mancante, mentre dal confine poroso fra Turchia e Siria gli aspiranti jihadisti continuano a penetrare, e sono più quelli che riescono a farlo di quelli fermati dalla polizia» [Marco Ansaldo, la Repubblica].
C’è poi il nodo con l’Europa. La scorsa settimana, in una riunione all’Istituto Affari Internazionali a Roma, il ministro turco per la Ue, Volkan Bozkir, ha detto che «nel giro di due anni Ankara sarà in grado di chiudere tutti i capitoli negoziali per aderire all’Unione Europea». E un convegno ricco di voci diverse svoltosi al Partito radicale, alla presenza di Emma Bonino convinta sostenitrice dell’ingresso di Ankara, ha appoggiato l’apertura di nuovi capitoli. Ma le trattative sembrano arenate: ieri per molte diffidenze europee, oggi anche per un maggiore disinteresse turco [Marco Ansaldo, la Repubblica].
Roberto Toscano: «Eppure la Turchia è uno straordinario Paese, come dimostrano ritmi di modernizzazione e sviluppo economico veramente straordinari e la presenza di intellettuali e professionisti di grande livello. Ci sarà quindi di certo un “dopo Erdogan” in cui le contraddizioni di natura politica potranno finalmente essere superate e in cui in particolare la religione, legittimamente presente nello spazio pubblico, non pretenderà di imporre la sua egemonia in campo politico. E in cui – va aggiunto – la Turchia potrà riprendere quel suo avvicinamento all’Unione Europea che oggi appare purtroppo come un sogno pateticamente irreale» [Roberto Toscano, La Stampa].