Corriere della Sera, 2 aprile 2015
Derivati, il Tesoro aveva ragione. Secondo i giudici, quei 3,1 miliardi di euro dovevano essere pagati a Morgan Stanley e la procura di Roma ha chiesto al Tribunale dei ministri l’archiviazione della posizione di Mario Monti, premier all’epoca dei fatti
La procura di Roma ieri ha messo un punto fermo nella complessa vicenda dei derivati che da quattro anni, a intermittenza, torna ad agitare il mondo della politica. Il caso è quello della clausola di estinzione anticipata contenuta nel contratto siglato nel 1994 dal Tesoro e da Morgan Stanley che, dopo 17 anni, è costato alle casse dello Stato ben 3,1 miliardi di euro. Era un momento difficile per l’Italia – la crisi del 2011 – e l’esborso ha rappresentato un vulnus significativo, quanto clamoroso, nella gestione del debito.
Le spiegazioni, in Parlamento e fuori, non sono mancate come i sospetti di scarsa trasparenza rivolti a tutti i responsabili del ministero dell’Economia che si sono succeduti negli anni. La clausola di estinzione anticipata però – hanno riconosciuto ieri i giudici romani – «era stata in origine legittimamente apposta» ed è stata «legittimamente esercitata da Morgan Stanley nell’ambito delle sue facoltà contrattuali». Con questa motivazione la procura di Roma ha chiesto al Tribunale dei ministri l’archiviazione della posizione di Mario Monti, premier all’epoca dei fatti, e ha anche sollecitato al gip (giudice delle indagini preliminari) l’archiviazione dell’inchiesta – che vedeva indagata il direttore del debito pubblico, Maria Cannata – per manipolazione del mercato, truffa e abuso d’ufficio.
Il caso dei derivati di Morgan Stanley potrebbe sfilarsi anche dal processo contro le agenzie di rating in corso a Trani dove il 19 aprile si deciderà se mantenere la sede del procedimento presso il tribunale della cittadina pugliese o trasferirlo a Milano. Il legame tra il clamoroso declassamento dell’Italia da parte di Standard and Poor’s e il caso del rimborso da 3 miliardi è stato infatti negato dal Tesoro con tanto di cifre e date.
Sui derivati però resta la polemica politica. In Parlamento ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è tornato a ribadire che sui contrati derivati fatti dal Tesoro la trasparenza «non potrà mai essere completa». Si sa a quanto ammontano (163 miliardi di euro a fine 2014), qual è il loro costo, quanti hanno – pochi – la clausola di estinzione anticipata, ma non potranno mai essere resi pubblici. Perché non c’è nessuna legge ad imporlo e soprattutto perché i singoli contratti, ha spiegato il ministro «sono sottratti al diritto di accesso» in quanto ciò comporterebbe uno «svantaggio competitivo» sul mercato per lo Stato e per le controparti, «con ripercussioni negative sull’intera gestione del debito». E comunque l’Italia si comporta come gli altri paesi.
La pensa diversamente – se non altro per contrapposizione politica – il presidente dei deputati di Forza Italia, Renato Brunetta che invece ritiene che l’obbligo di disclosure esista: «Padoan in sostanza ha messo il segreto di Stato sui derivati» ha detto chiamando in causa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi. «Padoan, ha dato una risposta burocratica, anche giuridicamente errata, che contraddice e smentisce tutte le tue dichiarazioni sul freedom of information Act e sulla t otal disclosure, sottraendo alla conoscenza pubblica atti fondamentali dell’amministrazione finanziaria, sulla base di una capziosa ma sbagliata esegesi della normativa di riferimento».