Corriere della Sera, 2 aprile 2015
Quegli 80 milioni di iraniani che seguono minuto per minuto le trattative in Svizzera, come una finale dei Mondiali di calcio. In ballo c’è la fine delle sanzioni e la speranza di una vita migliore. Ma c’è anche chi si preoccupa che in un paese dal «mercato corrotto come il nostro, l’ondata di investimenti porterà a monopoli di marchi globali legati a partner governativi. E noi verremo spazzati via»
«Anche adesso, proprio adesso, è l’una del mattino e non dormo, seguo le notizie dalla Svizzera. Ho sentito che le trattative continueranno per tutta la notte, e gli occhi di noi iraniani sono fissi su Losanna: anche i miei nonni, contadini nel cuore del Paese, stanno a guardare». Fariba Pajooh, 34 anni, è una giornalista riformista dal volto luminoso nell’hijab nero. Lavora per il quotidiano Al Shargh, che le autorità in passato hanno più volte chiuso, ma di questo adesso non vuole parlare. Proprio adesso, ottanta milioni di cuori iraniani seguono minuto per minuto le trattative in Svizzera, come una finale dei Mondiali di calcio ai tempi supplementari. In gioco c’è la speranza della fine di una disputa decennale sul nucleare e di sanzioni con un costo pesante (soprattutto negli ultimi 4 anni) sulla vita della gente comune, dagli studenti agli anziani, dai sostenitori ai critici del regime. Gli occhi sono fissi sulla Tv e i siti internet, ma lo sguardo va già oltre: oltre il Muro.
«La primavera sta per arrivare», dice Fariba al telefono da Teheran in questi primi giorni dell’Anno Nuovo persiano. Lei spera per suo padre. «È un colonnello dell’aviazione in pensione, ha il Parkinson, è rimasto ferito durante la guerra tra Iran e Iraq, quando hanno usato le armi chimiche. Ha bisogno di medicine speciali e, sotto sanzioni, negli ultimi tre anni, è stato difficile trovarle».
Ci sono «pazienti malati di cancro o affetti da sclerosi multipla che hanno sospeso il trattamento», ci dice la dottoressa Farideh, 51 anni (chiede di rivelare solo il nome). «Ora, da un po’ di tempo i farmaci si trovano, ma la gente non se li può permettere». Farideh, che ha vissuto la Rivoluzione islamica, la guerra, le sanzioni, spiega che i «periodi più oscuri e distruttivi sono stati due, di otto anni ciascuno»: il conflitto Iran-Iraq e – il «peggiore in assoluto» – il governo di Ahmadinejad, «un presidente che ragionava come un re medievale». Spera che «questo nuovo periodo di dialogo ci porti altrove». Ma resta scettica. «Per via di problemi come le politiche economiche, la spaventosa disoccupazione, un sistema che permette appropriazioni indebite e altri abusi, nel breve periodo non vedremo grandi cambiamenti per la gente comune».
Chi ha figli all’estero come Mojgan Ilanlou, 43 anni, documentarista, vuole la rimozione delle sanzioni bancarie. Il suo problema è il figlio sedicenne: «Frequenta una scuola privata a Londra, ma non posso versare direttamente la retta, mi aiutano degli amici in Europa. E poi, per tre volte l’ambasciata mi ha rifiutato il visto per andare a trovarlo».
Anche il bazar e il business guardano oltre il Muro. Dawood Morady Garawand, 31 anni, ingegnere delle comunicazioni, studia i sorrisi degli inviati iraniani a Losanna («sorrisi di scena: con l’economia a pezzi, devono mantenere la speranza»), ma si augura che la rimozione delle sanzioni sia graduale. Il suo settore non è stato molto penalizzato: guadagna 40mila dollari al mese fornendo servizi per la telefonia cellulare, perché quando aziende come Ericsson e Huawei hanno lasciato l’Iran, imprese locali come la sua hanno coperto il mercato. Se le sanzioni verranno tolte d’un colpo, «l’ondata di investimenti in un mercato corrotto come quello iraniano porterà a monopoli di marchi globali legati a partner governativi; e noi verremo spazzati via».
È la fibrillazione dei momenti epocali. Ma sul paesaggio che si staglia oltre il Muro non c’è accordo. Babak Amini, regista curdo iraniano, pensa che «la sfiducia continuerà, ci vuole tempo. Vorrei che non ci fossero confini in Medio Oriente, come in Europa, ma prima dobbiamo cambiare la nostra cultura». Dissidenti come Farahmand Alipour, ex giornalista al fianco del Movimento verde nel 2009, ora rifugiatosi a Venezia, si augura invece che «la gente possa tornare a preoccuparsi anche della politica e dei diritti umani, per ora sono tutti troppo presi dall’economia». La fotografa Newsha Tavakolian, 33 anni, che ha appena pubblicato sul New York Times i volti della sua gente illuminati di speranza, dice che «se fanno l’accordo non cambierà niente, non è come il Muro di Berlino. Forse dal punto di vista economico sì.... Ma è successo che gli accordi con l’Occidente abbiano prodotto posizioni più dure in Iran».
Comunque qualcosa sta cambiando. Cinque anni fa, Tavakolian mostrò al Festival «Middle East Now» di Firenze la serie Listen : foto di cantanti cui era vietato esibirsi in pubblico. Di recente, è stata a teatro a Teheran: «C’era una giovane solista, ha cantato per mezz’ora, è stato incredibile, la gente era entusiasta. I cambiamenti che restano sono quelli lenti». Una voce oltre il Muro.