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 2015  aprile 01 Mercoledì calendario

Il fenomeno Periscope, la nuova app di Twitter che ti premette di vedere la vita (degli altri) in diretta. Un blob di frammenti di esistenze, affastellati in perfetto disordine

E guardo  il mondo da un oblò/ mi annoio un po’.
Torna in mente la gloriosa canzone già nei primi minuti passati su Periscope, l’application nuova e fiammante che in pochi giorni dal debutto si è imposta imperiosamente all’attenzione generale. Già Instagram aveva segnato l’oscillazione del pendolo comunicativo.
In un primo periodo, i social network si sono fondati soprattutto sul “post” verbale: commenti, aforismi, insulti, dolenze ed esultanze, tutto espresso più che altro a parole. Ora si ritorna verso l’immagine: su Instagram si condividono fotografie, con la parola in funzione didascalica. Più radicalmente, Periscope permette di condividere immagini in movimento, e in diretta. Ha superato altre app analoghe perché è stata acquisita prontamente da Twitter, e quindi resa immediatamente disponibile all’enorme platea dei twittatori. Si accende lo smartphone, si accede, si mostrano immagini di quel che sta succedendo lì per lì: gli spettatori avranno la possibilità di commentare e anche di interagire con chi sta azionando il proprio periscopio. Fiorello, che ha collaudato Periscope in anteprima per RClub di Repubblica, ha esultato: «Ora tutti possono diventare reporter». In effetti, erano i primi giorni dal lancio dell’application quando un grosso incendio a Manhattan è stato coperto da Periscope prima che da qualsiasi altro medium. Pochi giorni dopo, lo streaming della meno fiammeggiante direzione Pd è stato assicurato da Periscope. Ma se eventi così sarebbero in ogni caso arrivati ai media più affermati, Periscope dà a chiunque la possibilità di mostrare quello che si esperisce, non qui ma ora. Così lo spettatore vede accumularsi sul suo monitor video di gente che viaggia in treno, che sta a casa sua, che parla degli affari suoi, da ogni parte del mondo connesso. Un blob di frammenti di esistenze, affastellati in perfetto disordine.
Video-selfie? Non propriamente, anche se quell’aspetto non manca. L’impostazione di base non è per la ripresa frontale: prima che le proprie fattezze si è dunque invitati a diffondere quel che appare dal proprio punto di vista, senza aver avuto la possibilità di preordinarlo, ma casomai commentandolo con la propria voce fuori campo. Finestra, prima che specchio: chiunque sia a Trafalgar Square o a viale Ceccarini, Riccione, può riprendere e mostrare chiunque altro si trovi lì, senza avergli chiesto il permesso e senza neppure farsene accorgere. Da ciò derivano forti preoccupazioni per la privacy, sottolineate la scorsa domenica da un dialogo allarmatissimo tra Fabio Fazio e Enrico Mentana a Che tempo che fa. In realtà la possibilità tecnologica di farlo c’era già: ma qui si aggiunge la semplicità e la facilità di diffusione, entrambe estreme, e l’immediatezza. Si sta su Periscope come su Twitter, insomma; e ci si sta in tanti. Altrettanto facile è mandare in streaming contenuti protetti da diritti, né sono da sottovalutare le insidie dovute all’uso svagato, e involontariamente autolesionistico, di una simile arma: chiunque saprà da dove stiamo diffondendo il nostro streaming (la geolocalizzazione è obbligatoria). Date le esperienze pregresse, ogni appello al legislatore, all’autodisciplina del sistema o a quella degli utenti sarebbe non solo velleitario, ma anche ridicolo.
Più interessante notare la caduta dell’ultimo barlume di mediazione: non solo saltano apparati di produzione, controllo e magari censura, ma viene meno anche la mediazione temporale. Mentre post e tweet richiedono prima dell’invio almeno la scelta e l’elaborazione di parole, su Periscope non si può impedire che qualcosa entri nell’inquadratura. Ciò che riprendiamo è immediatamente diffuso, che ci piaccia o no.
Infine si twitta soprattutto quando si è annoiati e prendere la parola può essere una forma di riscatto dal tedium vitae, o dal tedium tv. Di Twitter colpiscono la quantità di messaggi che si concentra attorno a un certo hashtag o la violenza verbale di certi commenti e alterchi fra twittatori. Periscope invece pare capacissimo di riprodurre la noia ambientale, la desolazione delle sale d’aspetto e dei treni, degli abitacoli delle auto in coda, delle camerette dei ragazzi. Di vertiginoso ha la rappresentazione caleidoscopica di miriadi di ambienti differentemente usuali, il mondo messo in scena senza scenografia né sceneggiatura.
Già si sa di eventi organizzati per essere trasmessi via Periscope e già si sa di riprese predisposte a un certo grado di professionalità, per ragioni di marketing, immagine, promozione di brand. Ma, come per ogni social network, il vero senso di Periscope attende di rivelarsi nell’uso che se ne farà attivamente dal “basso”. Quell’uso avrà probabilmente a che fare con la scoperta delle rispettive banalità. Risultare sorprendenti, spiritosi e simpatici è molto più facile con le parole (per esempio, alla radio) che non con le immagini in movimento (per esempio, in tv). Ci si può immaginare uno “Spinoza” (sito e account di arguzie collettive) fatto di battute non scritte bensì pronunciate in video dai loro autori? Magari sì, e lo staremo a vedere. Ma pare già di poter dire che quel che il periscopio può meglio mostrare è che il mondo visibile ha una superficie piatta, anche se la sua piattezza è in realtà un patchwork screziato e mutevole. A furia di voler apparire spiritosi forse siamo arrivati al momento in cui fare i conti con l’essenza banale dei nostri rispettivi modi di far passare il tempo.