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 2015  aprile 01 Mercoledì calendario

Soldi ai partiti? Grazie a Enrico Letta sono segreti. Il decreto che diceva di abolire il finanziamento pubblico in realtà non lo elimina. In compenso cancella dopo 33 anni l’obbligo di comunicare il nome di chi foraggia i soggetti politici

Che ci fosse sotto la fregatura l’avevamo immaginato in tanti. C’è voluto però quasi un anno per farla emergere, ed è in parte merito dei nuovi scandali, della nuova Tangentopoli che ha portato in primo piano il rapporto fra la politica e i suoi occulti finanziatori. Ed è proprio lì la fregatura, contenuta in quella legge pomposamente chiamata «abolizione del finanziamento pubblico dei partiti», che non solo non ha abolito affatto quel finanziamento, ma a sorpresa dopo 33 anni ha cancellato anche quel minimo di trasparenza che esisteva sui finanziamenti privati ai partiti. Naturalmente si erano tutti ben guardati dal dirlo, e buona colpa abbiamo noi operatori dell’informazione che non ce ne siamo accorti, forse un po’ confusi dal burocratese con cui la nuova legge è stata scritta.
Fatto sta che, grazie all’articolo 5 di una legge di cui si sono gloriati ben due presidenti del Consiglio (Enrico Letta che la varò come decreto, e Matteo Renzi che la cavalcò alla fine), non è più obbligatorio rivelare i nomi dei finanziatori dei partiti politici al di sopra dei 5 mila euro (e fino a 100 mila euro che è diventato il limite massimo). La nuova legge stabilisce infatti che quei versamenti siano tracciabili, e quindi controllabili dall’amministrazione finanziaria o dalla giustizia italiana. Ma non debbono più necessariamente essere rivelati agli elettori dei partiti, perché possono appellarsi alla legge sulla privacy e sono esentati espressamente da quell’obbligo che risaliva al lontano 1981.
L’opacità della nuova politica è evidente. Perfino nella prima Repubblica, anche durante Tangentopoli, la legge stabiliva che per qualsiasi contributo ai partiti era necessaria una dichiarazione congiunta firmata sia da chi dava che da chi riceveva e trasmessa alla tesoreria del Parlamento. Qualsiasi cittadino italiano iscritto nelle liste elettorali poteva, dietro la semplice presentazione di un documento di identità, recarsi in quell’ufficio e chiedere chi aveva finanziato questo o quel deputato, questo o quel partito politico. Entro tre mesi dalla ricezione del contributo infatti era obbligatorio depositare quel finanziamento e renderlo pubblico, e a fine anno tutti insieme dovevano essere indicati nei bilanci dei partiti. Da un anno questo minimo livello di trasparenza è stato abolito. È grazie a quel codicillo che era sfuggito ai più ad esempio che il Pd ha potuto non rivelare i partecipanti alle famose cene di autofinanziamento svoltesi a novembre 2014 alla presenza del presidente del Consiglio, Matteo Renzi. Mai rivelati nemmeno i contributi versati dal tavolo in cui era presente Salvatore Buzzi, il re delle cooperative sociali arrestato nell’inchiesta su Mafia Capitale. Dopo l’intervento della magistratura un altro dirigente della cooperativa a piede libero ha rivelato che furono comprati posti a tavola per 10 mila euro, e quindi secondo la legge che era in vigore dal 1981, quei soldi avrebbero dovuto essere dichiarati e resi pubblici (sono esentati invece i contributi inferiori a 5 mila euro nel corso dell’anno solare). Questo invece non è avvenuto. Come non sono stati più dichiarati contributi ricevuti da coop rosse, e mille altri. Gli obblighi di trasparenza che c’erano sempre stati e che – se violati – comportavano sanzioni anche dure, sono stati cancellati con un colpo di spugna dal duo Letta-Renzi. Secondo le nuove norme quegli obblighi scattano solo sui finanziamenti di «soggetti i quali abbiano prestato il proprio consenso, ai sensi degli articoli 22, comma 12, e 23, comma 4, del codice in materia di protezione dei dati personali». Essendo volontari non ha più senso nemmeno definirli obblighi. Peraltro anche sulle adesioni volontarie c’è chi sta fregando ampiamente il desiderio di trasparenza degli elettori: i finanziamenti dovrebbero essere resi pubblici (una volta acquisito il consenso) sia sui siti Internet dei partiti che su quelli di Camera e Senato. A un anno dall’entrata in vigore di quelle norme non ce ne è uno solo né sui siti dei partiti né su quelli del Parlamento.
È stupito e anche un pizzico scandalizzato di quello che abbiamo scoperto un esponente del Pd atipico come Pippo Civati, che proprio con Renzi aveva iniziato le sue battaglie sulla trasparenza della politica. E dice a Libero: «La trasparenza è il minimo da chiedere. Ai partiti e alle fondazioni politiche. Non si può dire come è avvenuto che per ragioni di privacy devono restare segreti i nomi dei partecipanti alle cene di Renzi. E uno vuole partecipare a una cena a mille euro, a maggiore ragione deve rinunciare alla privacy. Altrimenti non viene, ci dispiace, ma la politica ha degli obblighi superiori a quella della vita quotidiana. Per altro se tu vieni a cena, ti fai vedere da chiunque ci sia. Rinunci alla privacy a favore del leader da cui vuoi farti vedere perchè vuoi omaggiarlo... È un discorso senza sens»”.
Secondo Civati questo tema è forte anche per il rapporto fra Pd e coop che emerge dalle ultime inchieste: «È innegabile che il pci prima e poi i suoi eredi fossero finanziati dalle coop. C’era una cinghia strettissima che poi si è allungata negli anni, non sarebbe strano accadesse ancora oggi, ma andrebbe registrato, reso pubblico e spiegato. Nel caso che abbiamo appena visto c’è una questione di opportunità: se io produco una qualsiasi cosa, non la faccio acquistare da una coop venendo da quella storia. L’unica difesa è sempre quella di una legge che obblighi alla trasparenza, e costringa ad indicare per tempo tutti i contributi ricevuti in qualsiasi forma. Perché può accadere che noi parlamentari ci trasformiamo in lobbisti di questo e quello, e senza intercettazioni o carte delle procure basta andare a vedere tutto quello che è passato nello sblocca-Italia per averne la prova, ma non c’è trasparenza su quegli interessi, e quella è necessaria perché i cittadini sappiano».