Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  aprile 01 Mercoledì calendario

Ma questi vini della Madeleine, l’azienda umbra di Massimo D’Alema, come sono? Buoni, un filo cari ma buoni. Un po’ ruffiani e fighetti come andava di moda una decina di anni fa, forse più da performance, da concorso che da pasto, ma tutto sommato ben fatti, al punto da aver presto conquistato le attenzioni della stampa specializzata

Ma questi vini della Madeleine, l’azienda umbra di Massimo D’Alema, come sono? Buoni, un filo cari ma buoni. Un po’ ruffiani e fighetti come andava di moda una decina di anni fa, forse più da performance, da concorso che da pasto; ma tutto sommato ben fatti al punto da aver presto conquistato le attenzioni della stampa specializzata malgrado quel pregiudizio negativo sempre riservato alle etichette dei vip e malgrado il fatto che la prima vendemmia sia appena del 2011. Del resto il vignaiolo Massimo per la sua azienda è partito subito forte: come nel calcio quei presidenti danarosi che acquistano un club e lo inzeppano di star più o meno imbolsite, lui ha scelto il top dell’enologia, quel Riccardo Cotarella presidente dell’Assoenologi, consulente ricercatissimo e titolare di Falesco, azienda umbro-laziale che produce il Montiano, rinomato Merlot.
Ok, ma i vini? Sono quattro e tutti da vitigni internazionali. Perché l’ex Baffino e Cotarella in quella terra dell’Umbria enologicamente quasi vergine sospesa tra i comuni di Narni e Otricoli (segnatevi questi nomi) hanno percorso una strada in controtendenza rispetto all’enologia italiana, che oggi tende invece a riscoprire gli autoctoni. Questione di scelte. Il vino più importante è il NarnOt 2011, il cui nome è la crasi dei due paesi della provincia di Terni su cui si estende il regno vitato dell’ex presidente del consiglio, Narni e Otricoli (ricordate?). Un Cabernet Franc in purezza che dichiara 14,5 gradi, è prodotto in 6.500 bottiglie e viene venduto a circa 29 euro. Un vino di categoria mediomassimi, dal naso tipico del vitigno bordolese che offre un ricco bouquet di frutti di bosco e liquirizia e una venatura vegetale e una bocca non troppo tannica, appena vanigliata, di buona persistenza, perfetto per abbinamenti impegnativi come formaggi stagionati. Va detto che il NarnOt piace assai alle guide: l’Ais l’ha premiato con il riconoscimento più alto, i «cinque grappoli», mentre I Vini di Veronelli arriva a dargli 98/100. Il Gambero Rosso, più prudente, si ferma a due bicchieri su tre, mentre l’Espresso ignora del tutto l’azienda nell’edizione 2015 della guida.
L’altro vino da collezione è il Pinot Nero in purezza, da uve allocate nelle aree più calde delle vigne dalemiane. Ora, il Pinot Nero è vitigno capriccioso per natura, quello che nel calcio verrebbe definito un atipico: dove è di casa, dove è coccolato, come in Borgogna o in Alto Adige, dà vita a vini dall’eleganza impareggiabile, elettrica, vagamente posh. Dove è a disagio produce campioni scostanti, sfocati, magari non banali ma certo astrusi. Il Pinot Nero di Massimo è a metà strada: compiuto fino a un certo punto, con una sua verve seduttiva ma alcune sbavature. Come un abito sartoriale ma con qualche filo che pende. Di sicuro non lo consiglieremmo a un pubblico meno che competente, anche in considerazione del prezzo elevato: 33,50 euro a bottiglia. Completano i quadri il Nerosé, metodo classico da Pinot Nero che fa il suo lavoro e ha anche un prezzo giusto, 17,50 euro; e Sfide, un Cabernet Franc che aderisce al progetto Wine Research per vini senza solfiti. È anche l’unico sotto i 10 euro.