Il Sole 24 Ore, 1 aprile 2015
L’anomalia delle coop, ovvero il 10% del Pil fra affari e politica. Tra le tre grandi reti cooperative domina Legacoop che rappresenta da sola il 5% del nostro prodotto interno lordo. Ecco i numeri sul giro d’affari e sugli addetti
Nel 1854 la Società generale degli operai di Torino raccoglie un capitale di 1.400 lire e apre uno spaccio – il “distributorio sociale” – che vende pane e uova, verdura e latte a una popolazione stremata dalla fame. Centosessanta anni dopo le imprese collegate alla Legacoop valgono due punti e mezzo del nostro Pil, che salgono a cinque con l’indotto indiretto da esse generato. Per dirne il peso, la Fiat degli anni Sessanta incideva per il 3% sul valore aggiunto nazionale. Da oltre vent’anni il variegato mondo della Legacoop – specchio del Paese, in cui c’è tutto e il contrario di tutto – attraversa la lunga transizione italiana nei suoi aspetti più complessi.
Negli anni Novanta ha sperimentato la trasformazione del Partito Comunista in un nuovo soggetto e ha ricalibrato il suo rapporto con la politica, uscendo dalla storica minorità e diventando in non pochi passaggi soggetto forte rispetto a una politica debole. Nel 2008 è entrata nel tunnel della crisi dell’economia occidentale, mostrando una notevole resilienza.
Ora – in un rapporto con i partiti non del tutto risolto – è macchiata dagli scandali. In ogni caso, questa realtà conserva una consistenza occupazionale, una dimensione nel giro d’affari e una pervasività in alcuni dei settori della nostra economia tali da farne un elemento fondamentale degli equilibri italiani. Dice Tito Menzani, docente di Storia dell’impresa all’Università di Bologna e collaboratore della Fondazione Ivano Barberini, uno dei centri di ricerca di Legacoop: «La Legacoop ha un fatturato consolidato che si aggira intorno agli 80 miliardi di euro, con un numero di addetti che sfiora il mezzo milione. È un dato aggregato: usando l’indicatore dei ricavi, il 30% proviene dalle coop di consumo e di dettaglianti, il 25% dalla manifattura, dai servizi alle imprese e dalle costruzioni e il 26% dalle assicurazioni». Nelle coop di dettaglianti c’è una roccaforte come Conad. In quelle di consumo ci sono per esempio Unicoop Firenze e Coop Adriatica, architravi di quel sistema che, secondo l’ultimo R&S Mebiobanca, ha avuto nel 2013 un fatturato netto di 11,2 miliardi di euro e un “tesoretto” – sotto la voce “debiti finanziari verso soci” – di 10,8 miliardi di euro che ha contribuito a produrre, nello stesso esercizio, proventi finanziari per 431 milioni di euro. Nell’industria e nel facility management, ci sono fra le altre la Sacmi, la Camst e la Manutencoop. Nelle costruzioni, la Cmc, la Coopsette e la Unieco. Nella finanza, l’Unipol-Sai. Nel campo sociale – fornitura di infermieri e badanti, gestione asili e reinserimento di persone con problemi (la purtroppo ormai famigerata Cooperativa 29 Giugno di Roma lavorava con gli ex carcerati) – Legacoop ha un fatturato di 3,7 miliardi di euro e conta su 115mila addetti, poco più della metà di Confcooperative, che ha una vocazione più spiccata in questo segmento.
La Legacoop è un cardine del movimento cooperativo, incentrato appunto anche su Confcooperative e su Agci: sul totale complessivo delle tre così dette centrali, la Legacoop vale il 51% dei ricavi e il 43% degli occupati. Esistono peraltro cooperative “spurie”, estranee alle tre centrali. «Anche se – nota Carlo Borzaga, docente di Politica economica all’Università di Trento e presidente di Euricse, lo European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises – dal punto di vista strettamente quantitativo la maggior parte della cooperazione italiana afferisce alle tre centrali. In tutto, è stimabile che ad esse sia riferibile una quota di Pil compresa fra il 4,5 e il 5 per cento. Aggiungendo l’indotto indiretto, si sale a un 9-10 per cento. Non si è lontani dal vero pensando che la metà di questi valori sia imputabile alla Legacoop». Un 5% – diretto e indiretto – sul Pil che fa il paio con la funzione strategica anti-ciclica, propria di questa forma di organizzazione economica. «Non è tanto una questione di Legacoop o di Confcooperative – riflette Pietro Cafaro, docente di Storia economica alla Cattolica di Milano – quanto di forma economica. L’unione degli uomini e l’apporto del lavoro preesistono al mercato e integrano altre risorse, come il capitale, quando nei periodi di crisi si riducono». Una forma economica contraddistinta da una struttura insieme solida ed elastica, in grado di comprimere le spese generali e di beneficiare di valori salariali più bassi: da una comparazione fra società per azioni e coop Borzaga, che ha lavorato sulla banca dati Aida, ha desunto che – fra il 2007 e il 2013 – le prime hanno visto il loro valore della produzione aumentare dello 0,7%, mentre le seconde lo hanno visto aumentare del 24,7 per cento. «Ci sono riuscite – aggiunge il presidente di Euricse – sacrificando i margini, ma ricorrendo meno delle Spa agli ammortizzatori sociali e al taglio del personale». Taglio del personale che, per esempio, ha destato un vero e proprio shock a Bologna quando – il 6 marzo – la Coop Costruzioni ha comunicato gli esuberi di 200 dei 400 dipendenti. Al di là di Coop Costruzioni, la complessità di lungo periodo del modello cooperativo è stato ben illustrato da un occasional papers della Banca d’Italia firmato da Chiara Bentivogli e Eliana Viviano: “La più elevata dimensione media è associata a una produttività del lavoro più bassa rispetto alle imprese non cooperative. La differenza è marcata: fra il 2001 e il 2009 per le imprese cooperative l’indicatore è stato il 27% inferiore rispetto al dato relativo alle imprese non cooperative”, vi si legge. E ancora: “In media una impresa cooperativa sopporta un costo del lavoro inferiore del 21% rispetto a una impresa non cooperativa. La lettura congiunta dei risultati è compatibile con l’ipotesi che le imprese cooperative italiane tendano a contenere il costo del lavoro attraverso una politica salariale più moderata rispetto a quella delle altre imprese”.
In questi giorni sono al centro delle cronache giudiziarie cooperative collegate al mondo di Legacoop. «In generale – riflette Cafaro – proprio per la maggiore informalità e per la maggiore prossimità dell’uomo all’uomo che contraddistingue la cooperazione, vi sono minori procedure e la fisiologia della governance reale è più delicata. Tuttavia, al di là dei casi specifici, esiste una tradizione nelle centrali cooperative che assicura loro una capacità di autorigenerazione tutt’altro che irrilevante. Piuttosto, preoccupiamoci delle coop spurie, che talvolta operano al di fuori di ogni forma di controllo».
Dalle infrastrutture agli asili nido, dai corsi di italiano per gli stranieri alla grande distribuzione. Le coop sono ovunque. Dice Franco Mosconi, docente di economia industriale all’Università di Parma e studioso del modello emiliano, uno dei cuori di questa realtà: «La questione non è tanto la forma dell’impresa, ma il contesto in cui essa opera. La malversazione nasce dall’opacità e dalle zone d’ombra fra mercato e pubblica amministrazione, politica e regolamentazione. Chi si muove nella concorrenza, spesso internazionale, ha meno problemi. Pensiamo a realtà industriali in diversi modi riferibili alla Legacoop come Sacmi e Granarolo, Cantine Riunite-Civ e Unibon-Casa Modena. Mai una ombra su di loro. Qualcosa vorrà dire».