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 2015  marzo 31 Martedì calendario

Antiterrorismo: il decreto e le gelosie investigative. Il sottile filo che lega una cella del 41bis con la caccia ai tagliagole dell’Isis

Questa è una storia di “gelosie investigative”, di allarme terrorismo, di autorizzazioni poco informate. E del sottile filo che lega una cella del 41bis con la caccia ai tagliagole dell’Isis. Quando stamattina a Montecitorio i deputati italiani riprenderanno a discutere delle norme scritte dal governo, per prima cosa dovrebbero provare a smettere di pensare che riguardino solo chi indossa gli abiti del jihadista. Forse, allora, saranno più lucidi nel valutare le misure di sicurezza straordinarie che si apprestano a varare. Stralciata – dopo l’allarme lanciato dai giornali – la proposta di consentire l’accesso remoto ai computer dei sospettati, c’è un altro fronte su cui sarebbe il caso di andare cauti: i “colloqui personali con detenuti e internati”, una delle novità investigative introdotte dal decreto.
LA SCADENZA 2016 E IL CONFINE TRA CRIMINALI
Si tratta della possibilità per i funzionari dei Servizi di intrattenere, nell’ambito delle indagini per terrorismo, conversazioni all’interno degli istituti penitenziari. È una norma eccezionale, con durata limitata al 31 gennaio 2016, ma che ha già fatto drizzare le antenne a chi si occupa di antimafia. Perché, dicevamo, colui che può disporre di informazioni utili all’attività antiterrorismo non è necessariamente un barbuto vestito di nero. Anzi, soprattutto quando parliamo di logistica e di finanziamenti, il confine con gli ambienti della criminalità organizzata nostrana si assottiglia. Così, il campo di indagine dell’intelligence italiana può facilmente allargarsi a quello della malavita: mafia, camorra e ‘ndrangheta. E qui veniamo alle nostre carceri. E al rischio che il personale dei servizi possa avere un lasciapassare oltre le celle dei sospetti terroristi.
IL SÌ DISINFORMATO E L’EMENDAMENTO KO
I colloqui investigativi, così come le intercettazioni preventive (che esistono dal 2005), saranno sempre e comunque autorizzati da un giudice. E a un giudice ne andrà riferito l’esito. Ma il governo ha voluto – almeno per il momento – che a disporre il via libera sia il procuratore generale della Corte d’appello di Roma, su richiesta del presidente del Consiglio o, in sua vece, del Direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’organismo che coordina i servizi segreti. Non esattamente una scelta che “blinda” la fondatezza dell’autorizzazione. Spiega il Procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti, in audizione alla Camera: “Il procuratore generale della Corte di appello di Roma, non disponendo di una banca dati, non disponendo di conoscenze, non facendo processi, salvo i casi di sua competenza territoriale, che tipo di controllo potrà mai esercitare su queste richieste autorizzatorie di servizi?”. Roberti inquadra la scelta in questo contesto: “Si vuole evitare un controllo. Lo dico criticamente, ma con rispetto. Si vuole evitare questo controllo da parte di chi potrebbe esercitarlo in modo più incisivo perché dispone della conoscenza”. La scelta più logica sarebbe stata quella di attribuire il potere di autorizzazione alla Procura nazionale antimafia, che ora è investita anche dell’antiterrorismo, ma l’emendamento firmato dai Cinque Stelle Sarti e Tofalo è stato bocciato. “Vedete – insiste Roberti – le gelosie investigative, le gelosie della conoscenza, sono esiziali, come nelle indagini contro le mafie, così nelle indagini contro le organizzazioni terroristiche. La conoscenza dev’essere condivisa, fatta circolare tra tutti i soggetti, e questo lo può fare un ufficio che disponga della conoscenza”. Non è un caso che, finora, la possibilità di fare colloqui investigativi in carcere fosse consentita al procuratore antimafia o alla polizia giudiziaria e non ai servizi di intelligence.
IL CASO DEL PROTOCOLLO E IL DIVIETO AGGIRATO
Come sappiamo, il divieto è stato variamente aggirato e sullo sfondo resta aperta l’ipotesi che, tra servizi e boss, siano stati siglati patti inconfessabili: a Roma è in corso un processo sull’accordo segreto (il cosiddetto Protocollo Farfalla) che il Sisde stipulò con l’amministrazione penitenziaria per gestire le informazioni provenienti dai penitenziari di massima sicurezza senza informare i pm competenti. Sono questi precedenti che hanno mandato in allarme i commissari antimafia. Il Pd Davide Mattiello ha notato lo “squilibrio tra potere esecutivo e potere giudiziario” e ha ricordato che “la norma, una volta fatta, se non è sufficientemente definita, può essere usata per questo e per quello”. Claudio Fava, vicepresidente della commissione, si è premurato di domandare “se queste norme non modificano il divieto di contatti tra personale che opera per conto dei servizi di sicurezza e i detenuti, soprattutto quelli in condizione di 41-bis”.
L’ASSEMBLEA DEL BOSS E LE CELLE IMPERMEABILI
La risposta del capo dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, ahinoi, è stata secretata. In compenso, Consolo – alla guida del Dap da tre mesi – fotografa senza tabù tutte le falle del carcere duro, dai blackout nella videosorveglianza a Parma fino alla “assemblea di boss al 41bis” (definizione di Giuseppe Lumia, Pd): “Due stanze – racconta Consolo – si fronteggiano nello stesso corridoio, o peggio abbiamo una stanza sopra e una sotto con possibilità di comunicare da un piano all’altro o da pareti contigue”. La commissione antimafia da tempo lavora per un “check up” al 41bis. Ma, conclude Mattiello, “puoi anche fare le celle impermeabili, ma se poi non è chiaro chi e perché può entrare a fare dei colloqui...”.