la Repubblica, 31 marzo 2015
Che l’export ci salvi. L’economia è tornata ad espandersi ma come ritmo di crescita facciamo meglio solo di Cipro e Grecia. Eppure le aspettative sono migliori che all’estero
A volte viene da chiedersi se per caso non si nasconda da qualche parte un colossale abbaglio. L’Italia che vanta il quinto surplus più vasto al mondo nel commercio di beni industriali è, secondo l’Ocse di Parigi, ultimo fra quelli avanzati per la proporzione di abitanti con un diploma di laurea. Quanto ai pochi che lo hanno raggiunto, quando si chiede loro di capire un testo scritto risultano a fatica pari ai diplomati delle scuole superiori giapponesi.
Un Paese così è un’economia degli opposti. Presenta un numero di abitanti e un reddito pro capite simile alla Francia e di poco inferiore alla Germania, eppure la sua popolazione di laureati è metà di quella transalpina e un terzo di quella tedesca. Questa è l’èra delle rivoluzioni tecnologiche in fabbrica e in ufficio, ma in Italia quasi una persona su due in età da lavoro non ha studiato oltre la licenza media: è un portafoglio di competenze da nazione emergente, però qui i costi del lavoro sono occidentali. Nel frattempo l’export italiano di prodotti industriali ricchi di valore aggiunto – stima il ministero per lo Sviluppo – è cresciuto tre volte più in fretta di quello francese e poco meno che in Germania negli ultimi cinque anni.
L’economia italiana ha sempre avuto aspetti schizofrenici, inadeguatezza unita a continue sorprese. Almeno da questo punto di vista la Commissione europea non sta aggiungendo niente di nuovo. L’Italia in marzo registra il miglioramento più marcato fra i Paesi dell’euro per le aspettative economiche, benché resti fra quelli che alla prova dei fatti cresce di meno: solo Cipro e la Grecia fanno peggio. La produzione industriale italiana di gennaio e l’indice delle intenzioni di acquisto dei manager fanno pensare che il primo trimestre del 2015 potrebbe essere l’ennesimo a andamento zero. Intanto però ieri la fiducia delle imprese registrata dall’Istat è ai massimi da prima del crash di Lehman e la fiducia fra i consumatori non era così alta da 13 anni.
La lista delle antinomie potrebbe continuare a lungo, quando in gioco è l’Italia e il suo tentativo di mettersi la recessione alle spalle. Ma invece di nascondere tutto dietro le stanche metafore sul calabrone che vola malgrado se stesso, la ripresa comincia a rivelare qualcosa di più complesso. L’Italia sta ripartendo. La sua economia probabilmente è tornata ad espandersi: questa è una novità, non succedeva da quattro anni. Allo stesso tempo si verifica qualcosa che non è affatto nuovo: anche adesso che la strada è in discesa e tutti accelerano, questo Paese continua a perdere terreno sui suoi principali concorrenti. Così come andava peggio degli altri in fase di recessione, l’Italia per ora va meno bene in quella di espansione. La novità è la ripresa, la regolarità il ritardo di un Paese che riesce a crescere nei mercati esteri solo sulla base di sei milioni di disoccupati di fatto e retribuzioni orarie ai lavoratori ormai scese sotto la media di Eurolandia.
La moneta più debole e favorevole all’export, il petrolio meno caro e gli interventi della Banca centrale europea sul debito aiutano l’Italia più di altri: questa è un’economia particolarmente dipendente dai mercati esteri e dall’import di energia, e con un debito pesante. Alcune delle riforme messe in atto dal governo, soprattutto quella del lavoro e gli sgravi ai contratti, sicuramente contribuiscono a spiegare perché oggi la fiducia salga più che nel resto d’Europa. Ma a una struttura così fragile non bastano pochi ritocchi. Secondo l’Ocse, il centro studi di Parigi, la capacità di creare valore in un’ora di lavoro in Italia resta inferiore a praticamente qualunque altro Paese avanzato: fanno peggio solo economie dove remunerazioni e costo della vita sono molto più bassi, come la Polonia o il Portogallo. Dunque il costo del lavoro per una quantità data di prodotto in Italia resta troppo alto rispetto alla Germania, proprio perché la produttività in Italia continua a calare. Mancano le tecnologie, troppo spesso rifiutate da imprenditori impreparati, manca la certezza del diritto, manca la sollecitudine dell’amministrazione. Il potere d’acquisto dei lavoratori dunque si erode sempre di più, nel tentativo inutile di compensare l’inefficienza dell’intero sistema.
In un’unione monetaria queste sono dinamiche che alla lunga non perdonano. Sono il frutto dell’insufficienza di laureati validi, di quei 44 tribunali italiani dove giacciono più di mille casi aperti per ogni giudice, di tempi quadrupli rispetto all’Europa per escutere una semplice garanzia, di una burocrazia e di una corruzione intrattabili. Il governo cerca di avanzare su tutti questi fronti. Ma la ripresa oggi agli inizi può diventare la sua peggiore trappola: in troppi si stanno illudendo che ormai basti fare due piccoli passi avanti, e poi farsi portare dalla corrente.