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 2015  marzo 31 Martedì calendario

La sfida che si prepara alla Camera sulla legge elettorale sarà la madre di tutte le battaglie e deciderà il destino di questa legislatura. Renzi ha scelto di anticiparla perché ha capito che ogni giorno in più d’attesa rischiava di trascinare lui e il suo governo nel pantano

Sarà la madre di tutte le battaglie – e la partita in cui si deciderà il destino di questa legislatura nata sciancata, senza un vero baricentro politico e una vera maggioranza – la sfida che si prepara alla Camera sulla legge elettorale. Renzi ha scelto di anticiparla, somministrandone ieri un sapido antipasto alla minoranza del Pd, perché ha capito che ogni giorno in più d’attesa rischiava di trascinare lui e il suo governo nel pantano che corrisponde all’umore di pancia dell’attuale Parlamento.
Un Parlamento in cui nessuno o quasi vuole andare a votare, temendo di perdere il posto, ma pensa che se proprio ci si dovrà andare, presto o tardi, sarebbe meglio con il Consultellum, il meccanismo di emergenza previsto dalla Corte Costituzionale con la sentenza con cui ha cancellato il Porcellum. Che prevede, appunto, un proporzionale con le preferenze grazie al quale verrebbero elette nuove Camere abbastanza simili a quelle attuali, in cui nessuno ha ottenuto la maggioranza e il governo si regge sull’alleanza del centrosinistra con un pezzo di centrodestra e sulla disponibilità trasformista dei gruppi e gruppuscoli che continuano a nascere dalle scissioni dei partiti maggiori.
Va detto che non potevano fare altro i giudici costituzionali – tra i quali, va ricordato, al momento della sentenza, figuravano ben tre candidati alla Presidenza della Repubblica, nonché accademici tra i più conosciuti in materia costituzionale: Giuliano Amato, Sabino Cassese e Sergio Mattarella, padre di un’altra legge elettorale maggioritaria e da qualche settimana eletto Capo dello Stato con largo suffragio. Chiamati a proclamare la manifesta incostituzionalità del Porcellum introdotto dieci anni fa dal centrodestra, e non potendo lasciare il Paese privo di sistema elettorale, dovettero cucire i pezzi di quel che restava della vecchia legge per assicurare una ruota di scorta, nel malaugurato caso che il Parlamento privo di maggioranze non fosse in grado di assolvere al suo compito e approvare una legge più organica.
A dire il vero, di ipotesi sul da farsi ce n’erano, per questa come per altre riforme. A metterle per iscritto, nel tempestoso avvio di legislatura del 2013 in cui le Camere non erano state capaci, né di dar vita a un governo, né di eleggere il nuovo Presidente dal Repubblica, tanto che era stato necessario procedere alla rielezione di quello uscente, ci aveva pensato il Comitato dei saggi voluto da Giorgio Napolitano. Quel comitato aveva prodotto un catalogo di proposte, alcune condivise, altre no, che dovevano fornire un semilavorato per i Costituenti a venire. E in effetti, fu proprio a partire da quel decalogo che il centrodestra e il centrosinistra, ma in realtà Renzi e Berlusconi, a un certo punto trovarono l’accordo – il famigerato patto del Nazareno – per realizzare il minimo indispensabile delle riforme che aspettavano da anni, per non dire da decenni, di essere approvate: la fine del bicameralismo perfetto, una diversa disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni e la legge elettorale.
È esattamente su questo programma che le Camere hanno lavorato in questa prima metà della legislatura. Con più o meno accordo, anzi con tassi di disaccordo crescente, ma tuttavia giungendo alle prime due approvazioni (delle quattro necessarie) della riforma del Senato e all’approvazione da parte del Senato della riforma elettorale, che adesso arriva alla Camera per il sì definitivo. Questi i fatti. Non ci sarebbe neppure bisogno di ricordarli, tanto sono vicini e presenti a tutti. Ma giova farlo egualmente, dato che questo insieme, da un giorno all’altro, diciamo dall’elezione del Presidente della Repubblica in poi, dacché era un programma condiviso, o almeno sostenuto da una maggioranza, s’è trasformato nella «deriva autoritaria» di Renzi: che a giudizio di Berlusconi, non più suo alleato, e degli oppositori interni del Pd, vorrebbe imporre una specie di golpe per garantirsi nientemeno che un decennio di potere assoluto.
Ora, che in qualsiasi momento di un percorso parlamentare possa esserci un ripensamento, di uno o più partiti, e le riforme che fino a ieri sembravano opportune possano essere rimesse in discussione, è legittimo, e ci mancherebbe. Nel passato recente e in quello remoto (basti pensare alla famosa Bicamerale di D’Alema e al «patto della crostata» tradito in una notte) è già accaduto. Tra l’altro, se parliamo del centrodestra, lo sfarinamento del partito di Berlusconi è tale da non consentire all’ex Cavaliere di governare nessuna intesa. Se invece ci si accosta all’opposizione interna del Pd, è innegabile che molte delle richieste che venivano dalla minoranza anti-renziana, specialmente in materia elettorale, siano state accolte nel corso del lungo iter parlamentare della legge: il doppio turno al posto di quello singolo, le preferenze reintrodotte a dispetto del referendum del ’91 che le aveva abolite, la riduzione e l’innalzamento delle soglie, secondo che si tratti di quelle minime, per consentire ai partiti minori di entrare in Parlamento, o di quella massima per ottenere il premio di maggioranza grazie al quale si ottiene un risultato chiaro e un governo dotato di una maggioranza per governare. La trattativa è stata così lunga che a un certo punto anche il presidente Napolitano, che aveva svolto un’opera di mediazione tra il premier e i suoi oppositori, dovette arrendersi al dubbio che il negoziato fosse allungato all’infinito, più per evitare di decidere, che non per migliorare la legge.
Ieri Renzi e gli avversari dell’Italicum hanno incrociato le armi per l’ultima volta in direzione, prima di contarsi a Montecitorio. Stretta a sinistra dal nascente movimento di Landini e dai grillini, e a destra, ma meglio sarebbe dire da sopra, dall’incalzante pressione del premier, la minoranza Pd va allo scontro divisa e nell’imbarazzante condizione di doversi alleare con il centrodestra e i suoi franchi tiratori, pur di fermare la legge e riportarla al Senato. Così è chiara almeno la posta in gioco nella madre di tutte le battaglie: la scelta non è tra due diverse riforme; ma tra la riforma e l’eterno vizio italiano del rinvio.