il Fatto Quotidiano, 27 marzo 2015
La rinascita dell’Unità vista da Michele Serra: «Quando si dice che "deve vivere” si fa una mozione degli affetti che io per primo faccio mia, ma si deve però anche dire cosa deve essere. Da quando è morto il Pci io non ho ben capito cosa rappresentasse. Ma ora bisogna togliere il nome di Gramsci»
Molto prima dell’Amaca, c’era Tango, c’erano i corsivi corsari, le scorribande sudate sulla Panda in giro per l’Italia in villeggiatura. C’era una volta l’Unità, vittima di un primo “delitto perfetto” nel 2000 e di un altro qualche mese fa. Due chiusure, due speranze di rinascita. Michele Serra è stato il Cuore di una stagione gloriosa del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Lei è sempre stato legatissimo all’Unità. Che effetto le fa questa situazione?
Molta malinconia. Per me l’Unità, è stata una famiglia, ci sono entrato a vent’anni. Posso dire senza retorica di avere imparato tutto lì. È un’agonia interminabile. L’Unità nella quale io sono cresciuto era il giornale dei comunisti italiani. Aveva una ragione sociale definita: con tutti i suoi limiti, ma anche con tutto il suo potenziale, aveva un’identità forte. Finito il Pci – e quel mondo di riferimenti sociali e culturali – è rimasto un guscio vuoto. Con dolorose conseguenze, in primis per quelli che ci lavoravano.
Adesso torna in edicola.
Ho trovato in alcuni momenti una specie di accanimento terapeutico. Quando si dice “l’Unità deve vivere” si fa una mozione degli affetti che io per primo faccio mia, ma si deve però anche dire cosa deve essere. Da quando è morto il Pci io non ho ben capito cosa l’Unità, rappresentasse.
Il Pci ha avuto un’eredità politica, che adesso è al governo.
Questo è tutto da discutere. Le cose, così come nascono, muoiono. Non sono un nostalgico, ma il Pci ha avuto una grande funzione nella storia del Paese, dalla Costituente in poi: ne parlo veramente come del mio papà e dell’Unità come della mia mamma. I papà e le mamme però muoiono e si è tutti tristi. Ma non direi che c’è una diretta continuità storica tra il Pci e il Pd: è vero solo in parte. Ha senso che il Pd abbia un giornale? Se fossi stato capace di rispondere, avrei accettato in ben due occasioni di fare il direttore dell’Unità. Sotto la testata c’è scritto “Giornale fondato da Antonio Gramsci”. Sono d’accordo con Emanuele Macaluso che ha detto, nei giorni scorsi: “Va bene tutto, ma se l’editore Veneziani rileva la testata, almeno togliete Gramsci”.
Perché Veneziani pubblica riviste di gossip?
Potrebbe essere anche l’editore di Cavalli e segugi, non è un pregiudizio. È che non c’entra più nulla. Chi rileva l’Unità, dovrebbe evitare l’equivoco, anche vagamente offensivo, di volersi rifare a quelle radici lì. Sono radici importanti e nobili: hanno generato un grande albero, che adesso è stato abbattuto. Mi pare strumentale illudere le persone che si sentono orfane dell’Unità, come quei medium che provano a illuderti di poter parlare con un tuo caro che non c’è più...
Bisogna ritirare la maglia, come quando i grandi campioni vanno in pensione.
Un po’ sì. Mettiamo che la Chiesa cattolica sparisse, Avvenire potrebbe ancora uscire? Io credo di no. Ci sarebbero sicuramente dei giornali di ispirazione cattolica, ma sarebbero differenti. Non è corretto tenere in vita l’Unità, come se fosse un simulacro. O si trovano dei contenuti che io non saprei trovare – ma forse Matteo Renzi e i suoi ragazzi sì – o chiamatelo in un altro modo. L’Unità era il giornale dei contadini, degli operai, degli intellettuali.
Quando l’Unità fu chiusa la prima volta lei scrisse: c’è un grande buco a forma di U. Quel vuoto non c’è più?
Io lo sento come un mio lutto personale, ma i lutti si elaborano. Per qualche anno sono andato all’edicola in cerca dell’Unità, ora non lo farò perché l’Unità, non è più la voce di niente. Il Fatto può piacere o no, ma è vivo perché parla a sensibilità presenti nel Paese. Non riesco a capire quale voce potrebbe esprimere un giornale che oggi si chiama l’Unità e che sotto ha scritto “Fondato da Antonio Gramsci”.
Il ruolo del Pd?
Da un lato c’è un’esigenza di bandiera. Pare brutto in mezzo a tanti traumi identitari aggiungere anche la sparizione dell’Unità. Penso al rapporto con il sindacato o al jobs act. Se c’è qualche giovane genio – perché questa è la dimensione intellettuale di cui ci sarebbe bisogno – che riesce a riempire di contenuti quel guscio vuoto, ben venga. Spero che accada. Ma se non si trova il timbro per quella voce, allora si levi Gramsci. Bisogna essere adulti.
C’è uno iato tra Renzi, nel senso di cos’è diventata la sinistra italiana, e l’Unità?
Non diamo troppa importanza a Renzi: lo iato è tra la società italiana di oggi e quello che ha rappresentato il giornale con la striscia rossa. Era il giornale dei consigli di fabbrica, che viveva della contraddizione padroni-operai.
Marx è morto, Dio è morto...
Marx non è affatto morto: finché vive il conflitto di classe, finché vive il concetto d’alienazione Marx non muore. Mi scoccia dar ragione a Renzi, ma anche io non credo che si possa pensare il futuro con gli stessi parametri del passato. Però allora dovrebbe essere coerente fino in fondo e dire: dell’Unità non so che farmene.
I giornali di partito hanno ancora senso?
Se lo devono chiedere quelli del Pd. E si devono chiedere anche se ha ancora senso un partito. Se per Renzi il partito è solo un comitato elettorale, è un’opinione rispettabile ma va espressa con chiarezza. Il partito serviva ad allargare la partecipazione, a una migliore distribuzione delle decisioni. Non mi sembra l’idea del segretario del Pd.