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 2015  marzo 27 Venerdì calendario

L’impressionante ripresa dell’Irlanda. Nel 2014 è stata l’economia più forte d’Europa. Il mattone è tornato alla ribalta, la disoccupazione è tornata sotto la media, le strade e le boutique affollate di giorno così come i ristoranti e i pub lo sono la sera, ha fatto pace con la regina di Inghilterra e ha persino vinto il Torneo delle Sei Nazioni. Ma attenzione: il boom potrebbe essere un’illusione

Come un albero di Natale fuori stagione, un’immensa gru si erge solitaria sopra St. Stephen’s Green, il giardino che fa da piazza principale della capitale irlandese. Può sembrare un amaro monumento alla febbre del mattone, la bolla speculativa che aveva trasformato l’Isola di Smeraldo, a lungo terra di prati verdi bagnati di pioggia, cavalli, carestie ed emigranti (avete presente John Wayne in “Un uomo tranquillo” di John Ford?), nella Tigre Celtica, versione europea delle nuove economie asiatiche. Ma il boom immobiliare è durato poco, travolto dalla grande crisi globale del 2008: banche fallite, cantieri edili chiusi, disoccupazione di massa. C’è voluto l’intervento dell’Unione Europea e del Fondo Monetario, un piano da 85 miliardi di euro di prestiti, per evitare la bancarotta nazionale. L’Irlanda era in ginocchio. Sei anni più tardi, dopo una pesante cura a base di più tasse, tagli alla spesa pubblica, vendita di beni di Stato e riforme strutturali, si è rialzata in piedi.
Nel 2014 ha avuto l’economia più forte d’Europa (Pil cresciuto del 4,8 per cento) e si calcola che farà il bis nel 2015 (con il 3,5 per cento, comunque più che Gran Bretagna e Germania). La disoccupazione è sotto la media europea. A Dalkey, sobborgo chic di Dublino, ora una villa con sei camere da letto e vista mare costa 12 milioni di euro: d’accordo, è il quartiere in cui vive Bono degli U2, ma anche altrove è lo stesso, negli ultimi dodici mesi i prezzi delle case sono saliti del 15 per cento, più che a Londra, New York, Shanghai. La gru di St. Stephen’s Green simboleggia dunque una rinascita: la Tigre Celtica che ruggisce di nuovo, come scrive il Financial Times.
Sebbene per il momento, a guardarla da vicino, somigli a un gattone.
Di sicuro è il primo Paese dell’eurozona uscito dal pacchetto di aiuti e riforme draconiane post-crollo del 2008. Girando per il centro di Dublino ti accorgi subito che qualcosa è cambiato: comitive di turisti spagnoli, italiani, tedeschi, francesi, frotte di studenti di ogni parte del mondo, gente ben vestita, caffè, ristoranti e boutique alla moda, gli immancabili brand del lusso: Louis Vuitton, Chanel, Rolex, Gucci, Prada, Armani. Di giorno, Grafton street è una fiera delle vanità per lo shopping; di sera, i locali di Temple Bar scoppiano di una gioventù desiderosa di spassarsela. Della vecchia Dublino di Joyce è rimasto solo un pub frequentato dall’autore dell’“Ulisse”: sotto l’insegna c’è una sua citazione, «nel particolare è contenuto l’universale». Andrebbe bene come motto per la rivoluzione digitale, e infatti poco distante ci sono gli uffici di Google, Apple, Amazon, Yahoo: i big di internet che hanno scelto l’Irlanda come quartier generale nel vecchio continente, in tutto più di mille aziende dell’hightech attirate dalla “corporate tax”, l’imposta sulle società, più bassa d’Europa. Così bassa che il resto della Ue ha accusato il governo di Dublino di furto o di truffa, costringendolo ad eliminare le scappatoie più eclatanti: ma non tutte, evidentemente, se la Silicon Valley continua a scegliere l’Emerald Island quale base su questo lato dell’Atlantico. A Dublino c’è perfino un assessore alle start-up, Niamh Bushnell, aria sbarazzina e capelli rossi: «Solo in California c’è un clima così favorevole alla new economy», dice. Lo testimonia il Web Summit che si è svolto qui l’autunno scorso, «il luogo dove si dà appuntamento il mondo dell’alta tecnologia».
All’imbrunire, lungo le rive del porto, i grattacieli costruiti dove un tempo sorgevano i docks si illuminano evocando dunque un futuro di nuovo radioso. Certo, non è tutt’oro quel che luccica. Basta allontanarsi da Dublino per scoprire ancora intatte le “ghost town”, i villaggi fantasmi della folle speculazione edilizia: tirati su con mutui troppo facili, quindi requisiti dalle banche, infine rimasti vuoti. Un’asta in questi giorni offre un intero compound del genere, dieci villini da tre camere da letto l’uno, per meno di un milione di euro. Il boom di un decennio fa si fondava su immobiliare e consumi interni. Quello attuale è più cauto, basato sulle esportazioni favorite dal declino nell’euro e dal basso prezzo del petrolio. Non è sufficiente a restituire una casa, o almeno un lavoro, a chi ha perso tutto. Le vittime della crisi hanno avuto una sola via d’uscita, la vecchia strada dell’emigrazione: negli ultimi cinque anni se ne sono andate 165mila persone fra i 15 e i 25 anni. La diaspora irlandese, fenomeno storico dalla Grande Carestia del 1840 al 1990, è tornata a gonfiarsi: si stima che 1 milione di irlandesi vivano all’estero, un quinto della popolazione attuale. «Voglio che la nostra gente torni a casa», dice il primo ministro Enda Kenny lanciando “Global Irish”, una serie di iniziative per mettere fine alla fuga dei cervelli, specie quelli più giovani. La speranza è che nel 2016 gli irlandesi che tornano siano più di quelli che se ne vanno.
Sarà un anno importante, il prossimo. Sono in programma le elezioni e la coalizione di centro- destra al potere potrebbe essere costretta a cederlo o a spartirlo con un partito di sinistra, lo Sinn Feinn di Gerry Adams, i cui consensi nei sondaggi sono raddoppiati, dal 9 al 20 per cento: la terapia per rimettere a posto i conti pubblici è stata dolorosa, c’è un diffuso scontento, la conferma che le statistiche su Pil e disoccupazione non riflettono del tutto l’umore nazionale. E fra un anno esatto l’Irlanda commemorerà la rivolta della Pasqua 1916, quando proprio gli antesignani dello Sinn Fein proclamarono l’indipendenza, brutalmente repressa nel sangue dalla Gran Bretagna, che trucidò tutti i firmatari dello storico documento. Gradualmente, tuttavia, la sovranità fu conquistata lo stesso. E adesso è arrivata anche la pace con l’ex-colonizzatore: l’anno scorso la regina Elisabetta è stata il primo monarca britannico a visitare l’Irlanda, quindi il presidente della Repubblica irlandese ha compiuto per la prima volta un viaggio analogo a Londra. È vero che la parte settentrionale dell’isola, l’Irlanda del Nord, fa ancora parte del Regno Unito, ma almeno la pace regna anche lì, più o meno; e con i cattolici nord-irlandesi che fanno più figli dei protestanti non è utopistico sognare un domani la riunificazione dell’isola.
Intanto, nell’Irlanda indipendente e repubblicana, sempre ferventemente cattolica ma finalmente con una legge sul divorzio e restrizioni un po’ meno severe sull’aborto, si prega che il nuovo boom non sia un deja vu, una breve illusione come quello precedente. Di colpo pare che le vada tutto bene, si riscoprono e si rilanciano il design e l’artigianato locale, il tweed, la lavorazione del vetro, il whisky irlandese. Ha perfino appena vinto il torneo Sei Nazioni di rugby, suo sport nazionale, portando via il trofeo alla rivale di sempre, l’Inghilterra: qualcuno dice che l’ha aiutata la fortuna, ma ci vuole anche quella e non per niente il trifoglio è il suo simbolo. La Tigre Celtica, insomma, è tornata. Se proprio ancora non ruggisce, perlomeno miagola.