la Repubblica, 25 marzo 2015
Milano, a 37 giorni dall’Expo tra l’addio di Pisapia e i cinesi in Pirelli. Per la “città del potere” è un doppio shock
Il lungo addio di Giuliano Pisapia è stato breve. La decisione l’ha presa sabato sera, ci ha dormito sopra, la mattina dopo ha controllato che in città non stessero succedendo casini particolari, ed evidentemente non ha considerato un “casino particolare” la notizia della contemporanea cessione della Pirelli ai cinesi o l’ha digerita come un fatto ineluttabile, vedi il recente passaggio dei grattacieli di Porta Nuova agli arabi del Qatar. Poi dopo pranzo ha chiamato i suoi assessori per avvertirli del blitz, ha chiesto allo staff di organizzare al volo una conferenza stampa per le 17 e qualche minuto prima di andare in scena ha messo all’erta anche i reprima, dei social network. Uno di loro gli ha chiesto se doveva preoccuparsi. Lui ha scelto con cura le parole per rispondere: al posto di uno “stai sereno” dal beffardo sapore renziano, un pacato “stai tranquillo” alla milanese. Quindi, vestito da pomeriggio festivo, con un informale maglioncino beige, in mezz’ora ha spiegato quel che stava sospeso nell’aria da almeno mezzo anno, e cioè che non si sarebbe ricandidato, e quindi non sarà lui il tredicesimo sindaco di Milano, ma che fino alla fine del mandato, cioè alle Comunali del maggio 2016, avrebbe continuato il suo lavoro come anzi meglio di prima, perché d’ora in avanti nessuna delle sue decisioni potrà essere letta in chiave pre-elettorale. Scusate il disturbo, buon fine week-end a tutti. Telefonate con il premier Renzi? Nessuna, né prima né dopo. Giusto un accenno indiretto: “Il termine rottamazione non mi piace. Preferisco rotazione”. E lui, che il 20 maggio compirà 66 anni, come del resto aveva già promesso a inizio mandato, si prepara a roteare via prima che a qualcuno venga l’idea di rottamarlo.
Sommando il forzista Giovanni Toti che gli dà dello Schettino “che abbandona la nave a poche settimane dall’Expo” e i quattro minuti di applausi dalla sua maggioranza nel primo consiglio comunale, il giorno dopo, lunedì, Giuliano Pisapia esibisce un sorriso ancora più soave del solito e l’aria di chi ha fatto la cosa giusta nel momento giusto. Non è stata la stanchezza a spingerlo, men che meno gli scogli che ha davanti (la grande città metropolitana, il taglio violento ai fondi per amministrare le povertà crescenti, con una disoccupazione passata dal 6 all’8%, e gli sviluppi necessari a una metropoli europea). Il fatto è che ormai era diventato un tormento, persino i bambini delle scuole gli chiedevano conto di cosa avrebbe fatto. I tempi non gli permettevano di indugiare oltre: il 15 aprile uscirà per Rizzoli il suo libro “Milano, città aperta” ed andava evitato ogni sospetto di voler trainare il debutto; il 1° maggio parte l’Expo e guai a disturbare. Rimandare a dopo, a esposizione finita, cioè a novembre? Troppo tardi, sia per organizzare delle primarie sia per immaginare una coalizione capace di vinsponsabili cere anche senza un leader che oggi avrebbe 12 punti di vantaggio su un’eventuale ancorché azzardata candidatura di Matteo Salvini e addirittura 18 sul ciellino Lupi, oltretutto calcolati prima della caduta. In più, il gentile ma non sprovveduto Pisapia percepiva che le sue fila si stavano ingarbugliando, che erano cominciati personalismi tra assessori e consiglieri, e che i rapporti con l’ex collega di Firenze diventato premier non volgevano al bello, complicati se possibile dalla questione del registro delle nozze gay o dalle tensioni sui fondi lesinati per la sfida dell’Expo. Meglio sgombrare la nuvolaglia subito, e quando sarà vinca il migliore, purché sia chiaro anche ai migliori che vincere qui può non essere così automatico come sembra. Quando sarà, cioè fra 14 mesi: per l’anatra che si è auto- azzoppata, il cammino è ancora lungo.
Resta il fatto che a 37 giorni dall’inaugurazione dell’Expo, incrociando le dita visto l’avanzamento dei lavori, Milano perde in un colpo altri due pezzi: il più significativo sindaco “arancione” e una delle poche multinazionali nate in casa, la Pirelli, fondata proprio qui nel 1872, l’azienda col grattacielo, il Pirellone, simbolo laico del boom anni Sessanta. Sarà un caso ma la città che con la sua provincia garantisce ancora il 10 % del pil nazionale al governo non ha rappresentanti. Aveva un ministro, il milanese Maurizio Lupi, e adesso neanche quello. Sottosegretari, zero.
Fine di un’epoca, cambio di stagione. Quando il 27 maggio 2011, il variegato popolo che sosteneva Pisapia sindaco si riunì in piazza Duomo per l’ultimo comizio prima della liberazione dalla Moratti e da un ventennio di dominio berlusconiano e leghista, un arcobaleno benaugurante benedì la follìa politica di quella folla, un mix che andava dal centrista Tabacci alla battagliera sinistra vendoliana, includendo borghesia e gran borghesi desiderosi di cambiamento ma anche movimenti civici e giovani movimentisti. Domenica scorsa, quando il vincitore di allora ha annunciato il suo passo a lato, se non indietro, pioveva umido e il cielo neanche si vedeva.
In superficie, poco o nulla cambia. Milano ha ancora un sindaco e la Pirelli non si muoverà da dove sta, alla Bicocca, almeno fino al 2021. Eppure domenica 22 marzo, quinta di Quaresima, non è stata una giornata così banale. Due eventi variamente annunciati promettono di avere conseguenze più forti di quanto il sottotono con cui sono stati presentati lasci presagire. Con Giuliano Pisapia in uscita e la China National Chemical Corporation in entrata per comandare Pirelli, Milano lascia sul campo sia un pezzo pregiato di storia industriale e culturale sia un’ipotesi politica, quella “arancione”, che solo qui, rispetto a Genova, Cagliari o Napoli, ha avuto la sua espressione più compiuta. E poco importa che il sindaco uscente sogni per la “sua” città un domani politico in continuità col presente, cioè senza alleanze col centrodestra, insomma una riedizione aggiornata del “modello Milano” che ha, tra gli altri, il piccolo difetto di non somigliare per niente al “modello Italia” impostato da Renzi. Come conta relativamente che Tronchetti Provera manterrà la carica di amministratore delegato del gruppo e il quartier generale non si sposterà a Pechino o altrove. Restano due effetti visibili da subito. Il primo è che andrà ritoccata al rialzo la percentuale delle società italiane quotate in Borsa in mano a gruppi stranieri: fino a domenica 22 marzo era intorno al 43 per cento, ora di più. Il secondo è che, inevitabilmente, è già cominciata la volata per chi sarà il primo cittadino della Grande Milano Metropolitana a maggio 2016. “Battendo legno, come dicono gli inglesi, quello di questa giunta è stato finora un percorso netto, senza scandali né pasticci giudiziari”, lascia intendere Pisapia, marcando la differenza con chi l’ha preceduto. Certo, dal 2011 il paesaggio politico è cambiato parecchio, e quindi è possibile che Matteo Renzi, che non chiama, non telefona, non manda sms, consideri il laboratorio arancione dell’alchimista Giuliano un esperimento fastidioso e quindi da archiviare. Possibile anche che il nervosismo crescente tra molti cavalieri dell’Arcobaleno nasca proprio da qui. “Ma il timore di perdere, ricompatta. O almeno si spera”. E questo spiega, in breve, il lungo addio.
Quanto al Pirellone, consegnato alla storia patria da una foto di Uliano Lucas, con un immigrato sardo in posa davanti alla “fiaba verticale” con una valigiona nella mano sinistra e una grande scatola di cartone sulla spalla destra, adesso ospita il Consiglio regionale e, da primo, è sceso a quinto grattacielo della città. Se qualcuno vuole una cartolina da Milano, può andare in piazza Gae Aulenti. C’è una torre 100 metri più alta, è degli arabi, dov’è il problema.