Il Messaggero, 25 marzo 2015
Il Mal d’amore di Federico De Roberto. La «rinascita carnale» e il declino letterario di uno scrittore che perse la testa per una donna sposata e madre di un bimbo di cinque anni
Treves, nel 1886, gli aveva rifiutato La sorte, raccolta di novelle scritte all’ombra di un modello a lui assai caro, quelle “rusticane” di Verga. Per l’editore, giudice ben severo, il libro rappresenta soltanto «quel che c’è di bruto, di marcio, di sensuale» nella società. Questo intoppo di partenza non ferma però Federico De Roberto, salito a Milano per il suo apprendistato letterario fra il 1888 e il 1897. A Milano ci sono grandi case editrici, giornali come il Corriere della Sera (a cui inizia a collaborare grazie all’amicizia con Albertini), teatri come la Scala, salotti come quello di Virginia Borromeo, esponenti dell’intellighentia come Giacosa, Lopez, Ojetti, Boito, Praga, i conterranei Verga e Capuana.
Uomo assai nevrotico, con un rapporto irrisolto con la madre, soggetto a disturbi neurovegetativi e psicosomatici, De Roberto scrive in quegli anni sulla natura del sentimento amoroso. Cerca una propria individuazione affettiva e sentimentale che, breve e bruciante, con un lungo strascico di nostalgia e rimpianto, avviene nell’imminenza del ritorno a Catania. «Da quel giorno, voglio dire da quella sera, cominciò la mia felicità». Quella sera, l’incipit di una vera «rinascita carnale e spirituale», è il 29 maggio 1897. De Roberto fissa le tappe del calendario amoroso: tre incontri in cinque giorni, il passaggio dal voi al tu (dopo un mese e mezzo!), i luoghi della passione più o meno clandestina.
Lei è la ventunenne moglie dell’avvocato messinese Guido Ribera, madre di un bambino di cinque anni e titolare di uno dei più prestigiosi salotti della mondanità intellettuale. Proprio i vincoli del matrimonio infelice e le permanenze catanesi di De Roberto danno il propellente necessario affinché la passione della coppia esploda. Con Ernesta (ribattezzata Renata, ovvero «rinata» all’amore o “Nuccia”, da un non proprio elegante “femminuccia”) lo scrittore tesse, con cadenza talora quotidiana, un rapporto epistolare destinato a durare fino al 18 novembre 1903, con appendici fino al 1916, «in un intricato, pertinace intreccio di temi intimi e letterari», minuziosi resoconti, cronache di viaggi mentre sfuma la speranza di trasferirsi definitivamente vicino alla donna e ai luoghi diletti. Il siciliano De Roberto soffre di una pena che si chiama “mal d’amore” e considera Catania «gabbia», «prigione». Detesta la città «in cui conduce una vita da orso», con l’esistenza “massacrata”, da sua madre, nobildonna dal fisico minuto ma d’indole tanto imperiosa e possessiva da imporgli una “tutela” che egli subisce insieme con i sintomi di una «vera e propria isteria al maschile».
IMMAGINI
L’intensissimo carteggio tra Rico e Nuccia (quasi ottocento pezzi tra lettere, cartoline, biglietti), custodito presso la Biblioteca regionale di Catania con un ricco corredo iconografico – 80 immagini -, anch’esso in gran parte inedito o raro) è pubblicato per la cura amorevole di Sarah Zappulla Muscarà ed Enrico Zappula (Si dubita sempre delle cose più belle, Bompiani, 2132 pagine, 35 euro.) Un carteggio di spasimi e tormenti per la lontananza, baci e carezze a distanza, con le enfatiche e vibranti accensioni sensuali con gli scorci familiari e la vita quotidiana, le strategie, i timori di essere stanati: il marito di lei appare talora serenamente consapevole e ogni tanto entra nelle missive e si rivolge all’«Egregio amico». C’è da parte di entrambi la disperata volontà di colmare con le lettere il vuoto dell’assenza. Decisamente soggetta all’instabilità ondivaga della salute fisica e morale del suo amante che sono la giustificazione (o l’alibi?) per le mancate promesse di raggiungerla, Renata, lettrice e ammiratrice di lui già prima dell’innamoramento, è «dolce, ricettiva accogliente», quanto invece lui è impetuoso, temerario, travolgente. Federico usa la lettera come «un diario di bordo» associando a notizie su incontri, occasioni di lavoro, problemi economici o familiari le espressioni di un innamorato ardente ardito, insinuante. Come ha ben osservato Gabriele Pedullà, è il superamento della retorica romantica dell’estasi amorosa «dall’interno», attraverso il cospicuo innesto di riferimenti alla fisiologia del desiderio e del possesso pure addolcit da un lessico di nobile ascendenza letteraria. In cui entrano in gioco le polluzioni di lui o le nuove tipologie di “carezze” che lei si dice pronta a concedergli.
Con il tempo Renata diventa la confidente delle difficoltà del romanziere in una fase di inarrestabile declino, così non riesce a portare a termine il romanzo Impero né a ottenere l’auspicato successo teatrale. E lei stessa, la “Nuccia” fiera della sognata clandestina felicità, eterna e immutabile, diventa l’irritabile e lamentosa Ernesta, oppressa dalle difficoltà materiali. E nell’ultima lettera (senza risposta) chiede al “carissimo amico” un prestito di 850 lire: forse la possono aiutare a “strappare” (con il necessario incentivo: una bustarella?) il figlio dalla trincea sul fronte dell’Altopiano d’Asiago dove, se non paga, egli rischia di finire «tra i bombardieri», nell’imminenza della Strafexpedition.