La Stampa, 25 marzo 2015
In futuro ci saranno sempre più robot. Che siano Geishe o Terminator, le macchine costringeranno a ripensare tutto. Anche logiche e valori. Ma l’importante è che «non somiglino troppo agli umani». Parla Illah Nourbakhsh, il guru dei progettisti
Stiamo dando vita a una nuova specie e non è detto che ci sarà sempre amica. Potrebbe diventare un avversario e perfino un nemico. Il futuro che modella l’intreccio di scienza teorica e scienza applicata è incerto. Di sicuro sarà sempre più affollato di robot, nelle possibili versioni estreme di geishe o Terminator. E così le macchine ci costringeranno a ripensare tutto. Anche logiche e valori.
Entusiasta nel piglio e imprevedibile nelle idee, Illah Nourbakhsh è lo scienziato ideale con cui intrecciare una conversazione. Autore di «Robot fra Noi» (Bollati Boringhieri), è professore di robotica alla Carnegie Mellon University, a Pittsburgh, Pennsylvania, e direttore del laboratorio «Community Robotics, Education, and Technology Empowerment», il cui acronimo – guarda caso – è l’impegnativo termine «create». Creare.
Professore, lei è uno dei grandi esperti del settore: a che progetto sta lavorando?
«A un robot che rende visibili “cose” invisibili per le comunità: è un drone che misura le emissioni e disegna mappe sull’inquinamento. L’altro progetto, invece, non ha nulla del look del robot: si tratta di sensori che valutano la qualità dell’aria e si tengono sulla scrivania».
Lei parla di comunità e in effetti il suo laboratorio è anticonvenzionale: non siete solo un concentrato di cervelli, ma cercate di capire a cosa servono i robot nella quotidianità.
«È vero. I nostri team lavorano con le persone che stanno fuori dal laboratorio. È il principio del “participatory design”: ci spiegano le loro esigenze e noi cerchiamo di soddisfarle».
Qual è il robot più avanzato?
«Ci sono robot differenti, avanzati in modi differenti. Lo si capisce da quanta intelligenza mostrano e da come interagiscono: pensando in questi termini, tra i migliori ci sono le auto che si guidano da sole, come quelle di Google e Mercedes».
Cosa le rende così sofisticate?
«Hanno a che fare con sistemi complessi, che riguardano l’auto stessa, la guida e i pedoni: devono osservarli e predirne i movimenti».
Staremo seduti in auto, mandando mail?
«È una prospettiva interessante ma pericolosa. Anche se queste auto possono operare autonomamente nel 99% dei casi negli altri hanno bisogno del nostro aiuto. Immagino che ci vorrà una patente speciale per guidare un’auto senza pilota. Lo so, fa sorridere!».
Lei sostiene che i robot sono una specie inedita, capace di connettere il mondo fisico con la realtà digitale: quali sono le loro caratteristiche-base?
«Ce ne vogliono tre per fare di una macchina un robot: percezione, cognizione e azione».
Ce le spieghi.
«Significa percepire l’ambiente e rispondere alle sue sollecitazioni, oltre a prendere decisioni e interagire con estese masse di informazioni, per esempio quelle racchiuse in un pc. Oggi la quantità di dati è tale da toccare molti aspetti sociali e noi non siamo così evoluti da operare al meglio questo accesso».
Perché tra le creature che realizzate voi ingegneri e quelle della «pop culture» c’è così tanta differenza?
«Partiamo da un punto: le nozioni della “pop culture” variano dall’Oriente all’Occidente. In Asia i robot sono concepiti come una specie che ci aiuta a scoprire la nostra umanità. Da noi tentano addirittura di estinguerci. Nella realtà, però, sono più stupidi di quanto siano rappresentati nei film».
A proposito di intelligenza artificiale, l’A.I., lei è tra gli scienziati che la insegue o che la teme?
«Alcuni, come Elon Musk e Bill Gates, sostengono che potrebbe addirittura cambiare l’equilibrio dei poteri. La mia risposta è che il modo in cui si crea l’A.I. non è quello che rende noi “smart”. I robot calcolano più velocemente e trovano modelli nei dati, ma ciò che non hanno è la coscienza: fanno ciò per cui sono programmati e tuttavia non possiedono desideri».
E quindi cosa significa?
«Che i robot non possiedono la loro stessa esistenza. Restano nelle mani delle corporation e quindi ciò che si deve temere è che le stesse corporation sviluppino un proprio sistema di A.I. e diventino più intelligenti di noi. E perciò imbattibili».
Succederà presto?
«Sta già accadendo. Ed è questo il pericolo. Ogni giorno diventano più potenti grazie ai Big Data che gestiscono».
Quanti sono i robot?
«Centinaia di milioni. E questo numero in crescita fa particolarmente paura nelle fabbriche, perché i robot scavalcano le persone».
Sono un rischio concreto?
«Assolutamente. Aumentano la produttività riducendo la manodopera. L’effetto è una sottoccupazione cronica: si converte il “labour power” in “capital power” e la ricchezza cade in poche mani».
C’è una possibile alternativa?
«Molti parlano di una futura “era della prosperità”, quando i robot potranno soddisfare ogni nostro bisogno, ma si equivoca sul fatto che tra l’oggi e il domani si estende un’epoca di povertà e al momento non sappiamo come attraversare questo deserto».
Intanto lei scrive che i robot ci metteranno sotto stretta sorveglianza.
«Siamo controllati già oggi, come accade con l’Internet behaviour: c’è chi fa i soldi sui nostri comportamenti in Rete, anche se non vediamo i profitti. Ed è un processo che si intensificherà con l’A.I. A farla scattare basterà un sorriso non appena si osserva una pubblicità. Si sta perdendo ogni forma di privacy».
Quanto è pessimista sulla «robotic society»?
«Sono pessimista, perché il potere delle informazioni si concentrerà sempre più nelle corporation e nei governi, ma il mio libro contiene un messaggio di fiducia: ci sono tanti possibili futuri e abbiamo il potere di sceglierli».
I robot ci costringeranno a cambiare modelli mentali e valori di riferimento?
«La questione è la seguente: qual è il corretto approccio etico con cui trattare i robot, mentre diventano più intelligenti? Li considereremo come dei subordinati, rischiando di alterare i rapporti tra noi umani? O dovremo concedere loro un senso di rispetto?».
Sarà possibile insegnare loro una forma di moralità?
«Certo che sarà possibile, ma poi diventerà via via più difficile trattare i robot. Se li renderemo troppo simili a noi, non ci saranno più utili. Semplicemente sostituiremo noi stessi con loro».
Qual è l’opzione migliore?
«Ideare robot differenti dagli umani: così sarà più facile istituire con loro rapporti che non siano quelli che regolano le relazioni umane».
E il ruolo degli scienziati?
«Molti hanno vissuto nel chiuso dei laboratori, ora, invece, si inizia a ragionare sull’impatto dei robot, anche se gli studiosi non vengono ancora educati con i concetti della sociologia, dell’etica e della comunicazione. Così, troppo spesso non riescono a tessere un dialogo fruttuoso con le persone. Ecco perché è essenziale coltivare una generazione nuova di ricercatori».