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 2015  marzo 25 Mercoledì calendario

L’offensiva mediatica e di spionaggio di Israele per far saltare i negoziati sul nucleare con l’Iran. I servizi segreti israeliani avrebbero spiato le comunicazioni degli americani, ascoltato quello che i negoziatori raccontavano ai loro boss, intercettato le telefonate tra le sei nazioni coinvolte

Prima di diventare ambasciatore a Washington, quello che gli americani chiamano «il cervello di Bibi» (o il suo «specchio») si era trasferito in un appartamento a pochi metri dalla residenza del primo ministro a Gerusalemme. Consigliere senza carica ufficiale, sua guardia del corpo ideologica (via editoriali e interventi sui giornali), Ron Dermer è un ebreo osservante di origine americana: abitare così vicino a Benjamin Netanyahu gli permetteva di essere sempre a disposizione, anche di sabato quando non può guidare l’auto e deve muoversi solo a piedi.
È stato Dermer, alla fine di gennaio, a lanciare una campagna di pubbliche relazioni e pressioni politiche tra i deputati e i senatori americani. Per convincerli che l’accordo con l’Iran era inaccettabile, per anticipare le obiezioni che il suo capo avrebbe proclamato da lì a un mese davanti al Congresso. Per passare a democratici e repubblicani informazioni che la Casa Bianca preferiva tenere, almeno ancora per un po’, riservate: a Teheran sarebbe stato permesso avere 6.500 centrifughe funzionanti e di un modello capace di produrre uranio arricchito da usare per una bomba atomica.
Dettagli che gli israeliani sostengono di avere ottenuto da diplomatici di altri Paesi coinvolti nelle trattative, notizie che – ha ironizzato Netanyahu nel discorso al Congresso – possono essere trovate su Google. Il premier e i suoi consiglieri stavano cercando di ridimensionare i sospetti che i funzionari statunitensi hanno deciso di rivelare al quotidiano Wall Street Journal: i servizi segreti israeliani avrebbero spiato le comunicazioni degli americani, ascoltato quello che i negoziatori raccontavano ai loro boss, intercettato le telefonate tra le sei nazioni coinvolte (oltre agli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, la Russia, la Cina e la Germania).
Gli israeliani negano e gli esperti fanno notare che l’aggressività della sua intelligence verso gli Stati Uniti è stata ridimensionata dal caso di Jonathan Pollard, l’ebreo ancora in carcere per aver passato informazioni al Mossad.
Contrastare l’intesa che dovrebbe essere definita entro la fine del mese è adesso l’obiettivo principale di Netanyahu: il primo ministro avrebbe rinunciato al progetto di un attacco militare contro i siti nucleari iraniani e sarebbe arrivato ad accettare che agli ayatollah venga garantita una qualche forma di programma atomico. La battaglia diplomatica (e delle informazioni) diventa così fondamentale: gli israeliani da almeno un anno e mezzo hanno cambiato strategia e stanno concentrando i loro sforzi sul contenuto dell’accordo. Premendo sui Paesi che li ascoltano di più (Yuval Steinitz, ministro dell’Intelligence è in questi giorni a Parigi e Londra), cercando di deragliare le mosse del presidente Barack Obama.
Perché è di lui che Netanyahu non si fida (e il sospetto è ricambiato). Quando Obama ha dato il via ai negoziati nel 2012, ha scelto di tenerli segreti anche all’alleato in Medio Oriente e i servizi segreti americani hanno monitorato le comunicazioni dello Stato ebraico per oltre un anno, volevano scoprire se gli israeliani fossero stati a conoscenza delle trattative. Il presidente lo ha comunicato al primo ministro solo nel settembre del 2013. E la reazione israeliana (non ufficiale) è stata: «Come potevano pensare che non lo sapessimo già?». Gli Stati Uniti e Israele danno per scontato di essere l’oggetto della reciproca sorveglianza. Gli americani spendono in contromisure per interferire con i controlli del Mossad più che verso qualsiasi altro Paese amico. Gli israeliani applicano le stesse tattiche.
Così il Wall Street Journal spiega che Washington non è irritata dal fatto che le informazioni siano state intercettate ma che siano state usate per interferire nei rapporti tra il presidente e il Congresso.