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 2015  marzo 24 Martedì calendario

Il caso degli oriundi in azzurro. Antonio Conte convoca il brasiliano Eder e l’italo-argentino Vasquez e scoppia la polemica. Mancini attacca: «In Nazionale solo chi è nato in Italia». Lippi replica: «Queste sono le regole». Un dibattito vecchio oltre 100 anni, da Eugenio Mosso a Camoranesi passando per Schiaffino, Sivori e Altafini

Oriundo, dal latino oriundum, gerundio del verbo oriri («nascere, trarre origini»). Termine utilizzato soprattutto in ambito sportivo sport per indicare chi, nato e residente in una nazione, discende da genitori o antenati, che si sono trasferiti dal Paese d’origine [1].
 
Stefano Bartezzaghi: «Per poter cogliere appieno la suggestione della parola “oriundo”, e ricavarne il massimo dell’impatto sonoro e immaginativo, probabilmente è necessario avere incominciato a incollare figurine all’album all’epoca in cui andava fatto ancora con la coccoina, ovvero nella gloriosa fase di transizione della “cellina biadesiva”: la fine degli anni Sessanta. Una parola da maschi, ché le femmine allora né giocavano a calcio né attaccavano figurine, ed erano legittimate a pensare che una parola come “oriundo” fosse un termine di turpiloquio, proprio in quanto di uso fondamentalmente maschile» [2].
 
Per le sfide con Bulgaria e Inghilterra, Antonio Conte ha radunato gli azzurri quattro mesi dopo l’ultima volta e lo ha fatto inserendo nell’elenco dei convocati due giocatori nati lontano dall’Italia: il brasiliano Eder della Sampdoria e l’argentino Vazquez del Palermo. E almeno altri due sono sotto osservazione: Sebastian De Maio, difensore francese del Genoa, e Matias Vecino, centrocampista uruguaiano dell’Empoli ma di proprietà della Fiorentina. Senza contare che Dybala, il più bravo di tutti, ha declinato l’invito (come aveva fatto a suo tempo Icardi) per aspettare l’Argentina [3].
 
Il dibattito è aperto. «Credo che in Nazionale dovrebbe andare solo chi è nato in Italia. La Germania ha vinto un Mondiale con gli oriundi? Sì, ma i loro giocatori sono nati in Germania», attacca Roberto Mancini. La replica di Conte: «Non sono il primo e non sarò l’ultimo a convocare questi, tra virgolette, oriundi. Sono le regole, noi le seguiamo». «Se si rispetta il regolamento non vedo il problema. Io con Camoranesi ho vinto il Mondiale. Se Ronaldo o Messi avessero avuto parenti italiani nessuno avrebbe da ridire», interviene Marcello Lippi [3].
 
Il presidente della Figc Tavecchio è secco. «Con la cittadinanza italiana si può giocare in Nazionale. Discorso chiuso». Iachini, allenatore del Palermo, puntualizza. «Vazquez ha madre italiana, più italiano di lui...». Mandorlini, mister del Verona, è autarchico. «Facciamo tanto per far crescere i giovani e poi pensiamo agli oriundi». Zeman, col suo Cagliari pericolante, la butta sulla tecnica. «I giovani italiani devono fare meglio di chi viene da fuori». Il segretario della Lega Nord Salvini la butta in politica. «In azzurro chi nasce in Italia» [4].
 
All’ultimo Mondiale gli oriundi erano 83 su 736 giocatori [3].
 
«Si tratta di decidere se a livello di Nazionale il traguardo della vittoria sia da perseguire utilizzando tutti i grimaldelli consentiti dalla burocrazia, anche quelli border line, oppure se sia comunque preferibile preservare l’identità della squadra, magari a scapito di qualche convocazione tirata per i capelli. In questo senso non v’è dubbio che la chiamata di Eder, più di quella di Vazquez, alimenti perplessità sostanziali ma anche formali. Le radici italiane del sampdoriano sono infatti piuttosto sfumate, in pochi sanno che oltre le colonne d’Ercole di quel nome confidenziale si sommi un cognome che di nostrano ha il nulla assoluto (Citadin Martins)» (Alberto Costa) [5].
 
Eder, detto Eddie dallo staff della Samp, ha sposato una ragazza del suo paese, ha un figlio piccolo e oggi la sua Italia, fuori dal campo, è tra Bogliasco, il cinema alla Fiumara, il ristorante preferito a Sestri Levante [6].
 
Se il sampdoriano voluto da Conte per cambiare marcia all’attacco è silenzioso, timido ed educato, Franco Vazquez è «El Mudo», il muto, fin da bambino. Sulla sua italianità ci sono meno perplessità, considerato che la madre, cognome Bianconi, è di Padova. Il trequartista di Tanti, provincia di Cordoba, è arrivato al Palermo nel gennaio 2012 dal Belgrano, ed è stato rilanciato l’anno scorso da Iachini dopo le panchine e le tribune che lo avevano quasi convinto a lasciare il nostro calcio [6].
 
È da 101 anni che la Nazionale di calcio fa appello agli oriundi. La storia inizia con Eugenio Mosso, nato a Mendoza, in Argentina, attaccante del Torino, una presenza in Nazionale (5 aprile 1914, Italia-Svizzera 1-1). Nel 1920 era toccato all’interista Ermanno Aebi (attaccante, svizzero di nascita) e a Emilio Badini (centrocampista del Bologna, nato a Rosario), presente ai Giochi Olimpici di Anversa 1920 [1].
 
Il più pittoresco dei nostri oriundi è stato Julio Libonatti, italo-argentino di Rosario, detto il Dandy per il suo vestire vistoso e sgargiante. Lo portò in Italia il Torino del Conte Cinzano, nel 1925. Attaccante piccolo e veloce, segnò una caterva di gol [7].
 
Ricorda Fabio Monti: «Era stato Mussolini a spalancare le porte agli oriundi per sottolineare l’italianità di chi era emigrato e per aumentare la forza della Nazionale, in coincidenza con la Coppa del mondo giocata in Italia nel 1934. Già nella seconda metà degli anni Venti, avevano trovato spazio in azzurro campioni come Julio Libonatti, nato a Rosario (15 gol in 17 partite, il più prolifico) oppure il grande Attila Sallustro, attaccante del Napoli, nato nel 1908 ad Asuncion in Paraguay, famoso anche per il suo matrimonio con la soubrette Lucy D’Albert» [1].
 
Leggenda vuole che Mussolini, prima della finale del 1934, abbia fatto recapitare a Monti un messaggio semi-minatorio: «Se vincete, bene. Se perdete, che Dio vi aiuti». Diversi oriundi degli Anni Trenta si reimbarcarono di nascosto per il Sudamerica quando da noi l’aria si fece irrespirabile, per via delle leggi razziali mussoliniane e dei venti di guerra [7].
 
L’argomento era tornato di moda, dopo la tragedia di Superga (4 maggio 1949). Senza più il Grande Torino, che deteneva la maggioranza assoluta in Nazionale, i vertici del calcio italiano avevano spalancato un’altra volta le porte agli oriundi, con risultati modesti. Fra gli altri erano stati italianizzati Ghiggia e Schiaffino, che avevano vinto il Mondiale nel 1950, ma in azzurro erano finiti anche i tre «angeli dalla faccia sporca» (argentini): Sivori (8 gol in nove partite), Maschio e Angelillo oppure José Altafini (6 presenze e cinque gol), naturalizzato italiano, dopodiché a vent’anni aveva vinto il titolo con il Brasile nel 1958, quando si chiamava Mazzola [1].
 
Vittorio Feltri: «L’ostracismo verso gli stranieri in maglia azzurra non è una novità. Nel 1962 gli azzurri parteciparono alla coppa Rimet in Cile, e scesero in campo con due oriundi, Maschio e Altafini, per affrontare l’equipe locale. Più che una partita fu una guerra: la chiamarono la Battaglia di Santiago. Inutile dire che perdemmo, incassando più pugni che gol. Da quel momento gli oriundi furono messi al bando. Solamente Altafini sarebbe stato tollerato, eccezionalmente, per mancanza di un centrattacco casereccio. Anche se poi non vestì più l’azzurro nemmeno lui» [8].
 
Dopo i 33 oriundi convocati dal 1920 al 1962, però indicati come colpevoli del fallimento in Cile e quindi respinti dalla Nazionale per oltre 40 anni, si ricomincia nel 2003 con Camoranesi: fortissimamente voluto da Trapattoni, protagonista del Mondiale 2006 con Lippi, quindi impiegato anche da Donadoni. In seguito Prandelli allunga la lista con Ledesma, Amauri (inseguito invano già da Lippi), Schelotto, Osvaldo, il lastminute pre-Mondiale Paletta e Thiago Motta, per non dire Romulo (che però si fa male prima della convocazione ufficiale). E poi arriva Conte che inserisce gli stessi Paletta e Osvaldo, quindi Soriano, ma senza che gli facciano la morale [9].
 
Fa notare Gianni Valenti: «Implacabili le statistiche: quasi il 60% dei calciatori di A non sono italiani. Il risultato è che i nostri 18enni di belle speranze finiscono spesso in serie B o in Lega Pro. Dicono a maturare, forse per lavarsi la coscienza. La Nazionale ha il dovere di valorizzare il raccolto migliore, quando però le primizie esistono. Il salvaguardare la matrice della scuola calcistica italiana è un discorso condivisibile, ma fino a un certo punto. Date un’occhiata agli attaccanti nostrani in serie A. Dovesse dar retta ai gol, oggi Antonio Conte sarebbe costretto a richiamare Luca Toni e Totò Di Natale, entrambi 37enni. O Quagliarella che di anni ne ha 32. Campioni assoluti, non però compagni di viaggio sulla strada del rinnovamento» [10].
 
Alex Frosio: «Alfredo Di Stefano, argentino. Ferenc Puskas e Laszlo Kubala, ungheresi. Poi, storia attualissima, Diego Costa, brasiliano. Anche la Spagna, quanto a oriundi, non scherza. Quei quattro lì, ma ce ne sono molti altri – tra cui Marcos Senna, brasiliano di nascita che con Aragones vinse l’Europeo 2008 -, fanno parte della lunga tradizione spagnola riguardo alle naturalizzazioni. Il caso di Costa è però un po’ andato di traverso a mezza Spagna» [11].
 
La Germania campione del mondo ha sangue di origini diverse nelle vene: turchi (Ozil, Gundogan), africani (Boateng, Bellarabi), albanesi (Mustafi), ma tutti nati sul territorio tedesco. E lì si riconosce lo ius soli. E i polacchi? Podolski a due anni era già in Germania. Klose è un «aussiedler», perché nato a Opole, in Polonia, territorio tedesco fino alla guerra, e come tale aveva diritto a ottenere la cittadinanza una volta rientrato in Germania (Klose ci arrivò a 18 anni) [11].
 
Il successo della Francia al Mondiale ’98 era figlio sì degli stranieri, ma integrati, dal marsigliese-algerino Zidane in giù: nati o cresciuti in Francia (gli africani Vieira e Desailly avevano ottenuto la cittadinanza: servono 5 anni). Come poi Evra, nato in Senegal, ma arrivato in Francia a 3 anni [1].
 
 «Gli oriundi non ci piacciono? Il rimedio c’è. Così come in politica e nelle aziende pubbliche sono state introdotte le quote rosa in omaggio al principio “largo alle donne”, si applichi il medesimo criterio nel football imponendo le quote tricolori alle squadre professioniste. I frutti sono garantiti, con buona pace di Mancini e di chi predica bene per la nazionale e razzola male nel proprio club» (Vittorio Feltri) [8].
 
Note (tutte dai giornali del 24/3): [1] Fabio Monti, Corriere della Sera; [2] Stefano Bartezzaghi, la Repubblica; [3] Alessandro Bocci, Corriere della Sera; [4] Enrico Currò, la Repubblica; [5] Alberto Costa, Corriere della Sera; [6] Paolo Tomaselli, Corriere della Sera; [7] Sebastiano Vernazza, La Gazzetta dello Sport; [8] Vittorio Feltri, il Giornale; [9] Fabio Licari, La Gazzetta dello Sport; [10] Gianni Valenti, La Gazzetta dello Sport; [11] Alex Frosio, La Gazzetta dello Sport.