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 2015  marzo 24 Martedì calendario

Le strategie globali dietro al riassetto Pirelli. Una nuova competizione fra continenti. Il confronto è fra le piattaforme tecno-produttive. Il ruolo delle politiche industriali e la debolezza europea

La scala dimensionale è cambiata. La competizione è fra piattaforme tecno-produttive continentali: l’Ue, gli Usa e l’Asia, che ha nella Cina la potenza egemone. Tra finanza e industria, innovazione e politiche industriali di ampio o di corto respiro, il caso Pirelli assume un valore di scuola che mostra bene le nuove logiche. E pone la questione dell’inserimento, in un contesto comunitario dalle policy non sempre coese e solide, delle eccellenze industriali italiane.
Chi gioca in difesa. E chi in attacco. Ci sono i predatori. E ci sono le prede. Gli equilibri economici internazionali si stanno rimodellando. I conflitti fra sistemi produttivi e politici sono sempre più cruenti.L’innovazione radicale e la manifattura avanzata compongono vasti aggregati territoriali che ormai trascendono le singole realtà nazionali. La scala è globale. Pirelli ha un corpo tecnologico tutt’altro che irrilevante. La base su cui poggia l’edificio produttivo acquisito da Chem China è costituita da un investimento costante in R&S, che secondo la riclassificazione dei bilanci effettuata dall’ufficio studi di Mediobanca è stato compreso, fra il 2004 e il 2013, in una quota fra il 3% e il 4,3% del fatturato netto: in dieci anni, oltre 1,7 miliardi di euro. «Il portafoglio brevetti di Pirelli – nota Massimiliano Granieri, ex University of California at Berkeley che oggi insegna all’Università di Brescia – conta su 6.698 brevetti, 1.500 dei quali attivi. Si tratta di uno dei patrimoni conoscitivi e tecnologici più importanti del sistema europeo. Soprattutto perché costituisce il risultato della sedimentazione storica di tecnologie assolutamente trasversali». Il 20% di questo portafoglio riguarda i trasporti. Il 9% le tecnologie ottiche. Il 5% le telecomunicazioni. Il 5% i polimeri e la chimica. Il 5% la meccanica. E, poi, c’è un 15% di brevetti che si possono inscrivere alla categoria della meccatronica, quella particolare tecnologia media nata dalla convergenza fra più tecnologie – il cuore del medium tech – oggi lievito della competizione industriale europea. Nel nuovo capitalismo internazionale, che ha assunto le fattezze di un confronto serrato e all’ultimo sangue fra grandi Region più o meno coese preconizzate fin dal 1991 in “Geography and Trade” da Paul Krugman e ha incorporato la velocità che toglie il respiro delle global value chains decrittate negli ultimi dieci anni da Tim Sturgeon e dalla scuola del Mit di Boston, l’Europa ha appunto questa specializzazione trasversale che rende omogeneo il tessuto produttivo fra la Germania, l’Italia e la Francia. Per dire, quella meccatronica che rappresenta il lievito sottostante dei settori tradizionali e dai confini più netti, come l’automotive, in cui nonostante la competizione dei carmakers asiatici e la rinascita di quelli statunitensi ancora il 60% delle domande di brevetto depositati allo European Patent Office è di origine europea. «In realtà – osserva Paolo Massardi, partner di Roland Berger – la leadership tecno-produttiva europea è costituita anche dalla robotica, dall’automazione nello spostamento e nella movimentazione e dagli Rfid (i sistemi di riconoscimento del dettaglio)». Rimanendo all’Italia, la Comau del gruppo Fiat, che sta avendo un ruolo fondamentale nel processo di reindustrializzazione degli stabilimenti di Chrysler in tutto il Nord America, e la Datalogic di Bologna, leader mondiale nei sensori e nei lettori a codici a barre. In un capitalismo che tende a frammentare i processi produttivi e a de-territorializzare le attività dei grandi gruppi, connettendoli alle catene internazionali del valore e ai global production networks, le primazie non riguardano soltanto i settori dai confini precisi e nitidi, quanto appunto le attività trasversali. «Gli Stati Uniti – continua Massardi – hanno la primazia tecno-produttiva nelle reti specializzate nel B2B, nel clowd computing e nei big data. Infrastrutture immateriali, che permeano tutti i comparti, e che stanno modificano la fisiologia profonda della manifattura e dei servizi». Infrastrutture su cui gli Stati Uniti – impegnati in una rivisitazione di politiche industriali che non si vedeva da quando con gli investimenti militari e pubblici salvarono l’informatica fra fine anni Ottanta e i primi anni Novanta cambiando il mondo con l’invenzione di internet – stanno investendo energie e risorse. Peraltro, dopo avere salvato l’industria automobilistica. Da questo punto di vista, l’Asia – con l’eccezione dell’India nel software – sta rincorrendo. «Una rincorsa – nota Giorgio Prodi, economista dell’Università di Ferrara e membro del comitato scientifico dell’Osservatorio Cina – a cui è la politica cinese a imprimere il ritmo». Dietro a una operazione come quella di Chem China su Pirelli c’è evidentemente l’input istituzionale di Pechino. Giorgio Prodi sta compiendo una ricerca sui brevetti cinesi nell’automotive: «Sono pochi. I brevetti costituiscono una buona proxy dell’innovazione formalizzata. La politica industriale cinese basata sulla costituzione di joint venture fra grandi gruppi occidentali e case automobilistiche nazionali, che sta funzionando bene sotto il profilo manifatturiero, non sta producendo in Cina vera contaminazione e autentici follow-up tecnologici. Dunque, adesso i cinesi hanno deciso di comprare fuori». Il caso Pirelli è il risultato di questo cambio di rotta. Nella complessa (e rischiosa) dinamica che si instaura quando un grande gruppo viene acquisito e si ritrova la testa strategica in un altro continente, bene ha fatto la proprietà in uscita a porre una clausola formale per il mantenimento della ricerca in Italia. Interessante constatare come gli attuali vertici si siano rivolti, nei giorni scorsi, alla presidenza del Consiglio italiana, informata data la centralità di una impresa che quasi coincide con un settore produttivo nazionale. Invece, sul fronte di Bruxelles sarà aperto un confronto sul profilo regolatorio di antitrust. Qualcosa di puramente formale: Chem China non ha stabilimenti produttivi nel Vecchio Continente e possiede una minima quota del suo mercato. Con Bruxelles nulla, però, di strategico-sostanziale. Il che mostra come l’Unione europea – in quanto istituzione in grado di appaiarsi all’istituzione del mercato nella prospettiva strategica dei grandi affari e dei grandi rivolgimenti della nuova globalizzazione – semplicemente non esista. Una questione di non poco conto. L’assenza di un piano europeo rischia di diventare una debolezza strutturale per un capitalismo come quello italiano, vitale sotto il profilo industriale e dell’innovazione ma gracile nella sua componente finanziaria e patrimoniale, impegnato a muoversi in uno scenario internazionale in cui i suoi concorrenti hanno alle spalle policy di ampio respiro e di forte determinazione.