Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 24 Martedì calendario

Il castello di carte fondato sul “mutuo soccorso”, sulla ragnatela di partecipazioni incrociate del capitalismo nostrano, sulle scatole cinesi (ma molto made in Italy) e sui patti del salotto buono, non ha retto però al vento impetuoso della globalizzazione. Il caso Pirelli e non solo

All’inizio degli anni ’90, quando Pirelli era uscita distrutta dal rovinoso tentativo di conquistare la tedesca Continental, la strada per Marco Tronchetti Provera, al quale il suocero Leopoldo Pirelli aveva affidato le redini del gruppo, si era rivelata subito in salita.  «Pirelli non è finanziabile», aveva sentenziato l’Imi, allora guidato da Rainer Masera. E se Tronchetti non avesse trovato la sponda della “vecchia” Mediobanca, ancora sotto l’egida di Enrico Cuccia, oggi probabilmente non staremmo a parlare dell’ingresso dei cinesi nel capitale della Bicocca, perché forse Pirelli non esisterebbe neppure più come marchio.
Il castello di carte fondato sul “mutuo soccorso”, sulla ragnatela di partecipazioni incrociate del capitalismo nostrano, sulle scatole cinesi (ma molto made in Italy) e sui patti del salotto buono, non ha retto però al vento impetuoso della globalizzazione. La stessa Mediobanca ha dovuto prendere atto della fine di un’epoca, dismettendo la sua veste di Centauro, metà banca e metà holding di partecipazioni, che l’aveva contraddistinta per mezzo secolo. E non c’è Hausbank che tenga a puntellare architetture proprietarie che non sono più al passo coi tempi.
L’azienda Pirelli, sopravvissuta alla prima grande ristrutturazione degli anni ’90 e rilanciata fino a diventare la multinazionale che è oggi – con il 94% del fatturato e della produzione all’estero -, si è trovata così, come è successo e sta succedendo ad altre realtà societarie, ad affrontare il nodo della proprietà. Mantenerla in mani italiane, con il necessario ricorso ad artifici bizantini, avrebbe significato farle mancare l’ossigeno delle risorse, soffocarne la crescita e renderla comunque finanziariamente fragile, esposta al rischio di Opa predatorie alle quali non sarebbe stato possibile opporre una barriera. Marco Tronchetti Provera, a parte l’incidente Telecom (non proprio indolore, visto che è costato il sacrificio della divisione Cavi), ha legato tutta la sua carriera manageriale-imprenditoriale al gruppo di famiglia dei suoi tre figli: e non è un elemento da trascurare nell’evolversi della vicenda. All’inizio ha cercato in Italia, trovando un partner nella liquida famiglia Malacalza, ma è finita a carte bollate. Poi pensava di aver trovato un socio forte nel colosso dell’energia russo Rosneft, col corollario industriale delle possibili collaborazioni nello sviluppo delle gomme sintetiche (iniziative che comunque sono ancora in corso e suscettibili di sviluppi). E alla fine, con l’embargo alla Russia che ha reso potenzialmente instabile anche il deterrente difensivo dell’alleanza con Rosneft, non ha avuto altra scelta che affidarsi al nuovo partner cinese. Certamente al prezzo di rinunciare al controllo proprietario, ma di fatto, sulla carta, la miglior soluzione possibile per preservare l’integrità dell’azienda, con sede, proprietà intellettuali e management radicati in Italia.
Si perdoni il paragone irriverente, ma è come se la Trabant avesse comprato la Ferrari: per farla correre, e non farla invece arrugginire in garage, dovrebbe necessariamente affidarne la guida. ChemChina ha, con Aeolus, un’attività nelle gomme per camion e mezzi pesanti che per produzione è alla pari con l’analoga divisione della Bicocca (prossima a essere scorporata per dar vita alla joint-venture industriale italo-cinese), ma per qualità è distante anni luce. I pneumatici cinesi per mezzi pesanti oggi hanno una sola vita, contro le tre vite dei prodotti più evoluti, con gravi problemi di smaltimento e di inquinamento ambientale: il salto tecnologico consentito dall’alleanza con Pirelli permetterà di andare alla conquista dello sterminato mercato asiatico con le carte, o meglio, con le gomme “giuste”. E con l’entratura di una multinazionale già presente ovunque. Per questo non c’è dubbio che, con la tradizionale lungimiranza cinese, ChemChina oggi abbia tutto l’interesse a comprarsi una squadra che si è rivelata vincente sotto tutti i profili industriali. L’orizzonte del domani è garantito per i prossimi cinque-dieci anni dalle clausole contrattuali dell’intesa, oltre sarà la forza del “made in Italy” a condizionare le scelte.
«Di meglio non ho saputo fare», si è lasciato scappare Tronchetti, in privato, all’indomani dell’accordo. Non sarebbe andata così né con uno dei big del settore che, per ragioni antitrust, avrebbe dovuto fare a pezzi la Bicocca, né con i produttori medi coreani o giapponesi (con i quali c’erano stati contatti) che avrebbero preteso la guida della macchina, con tanti saluti all’italianità dell’azienda.