La Stampa, 24 marzo 2015
Singapore, la città-Stato che si è fatta ricca e moderna ignorando la democrazia, ha perso la sua identità con la morte del suo padre-imperatore Lee Kuan Yew. Ora la metà dei suoi abitanti vuole andarsene
Quando la Cina era ancora un gigante che dormiva, l’appena scomparso, domenica sera a 91 anni, Lee Kuan Yew aveva già capito tutto: la strada dello sviluppo non deve passare necessariamente per la democrazia, anzi. E nella sua piccola città-Stato, governando un paio di milioni di abitanti a cui alternava premi e sculaccioni, questo discendente di cinesi Hakka trapiantati a Singapore diede inizio a una delle più straordinarie storie di successo economico del secolo scorso.
Crocevia mondiale
L’incredibile ascesa di Singapore dagli Anni Sessanta non è solo quella di un sonnolento avamposto coloniale diventato centro finanziario globale e crocevia marittimo tra Oriente e Occidente. È anche l’emergere di un’idea che è stata presa a modello da autocrati di mezzo mondo, la nave rompighiaccio che ha indicato il contratto sociale da seguire alla Cina del dopo Mao: arricchitevi gente, lavorate sodo e non disturbate il governo che lavora per il benessere di tutti. Ossia i presunti «valori asiatici», come amava dire l’ex premier Lee: una visione confuciana che combinava una pragmatica etica del lavoro, la parsimonia, una deferenza filiale estesa allo Stato, e libertà personali sacrificabili sull’altare della stabilità e della prosperità.
Il segreto di Singapore era tutto lì, in una regione dove regnava il caos. Mentre il Vietnam bruciava sotto le bombe americane, la Cambogia cadeva sotto la follia dei Khmer rossi e la Cina barcollava dopo la rivoluzione culturale, Singapore diventava una città ricca e moderna. Tasse basse per attirare gli investitori stranieri, poche domande sulla provenienza dei capitali, tanta pianificazione e media addomesticati: il leader cinese Deng Xiaoping la visitò nel 1978, e ne rimase impressionato.
La «città del leone» (il suo significato in sanscrito) oggi ruggisce ancora: è il Paese dal quarto più alto Pil pro-capite al mondo, un’oasi dello shopping ad aria condizionata dai grattacieli scintillanti. Resta un esempio di efficienza: una metropoli con un sistema di trasporto pubblico invidiabile, dalla criminalità quasi inesistente, con una popolazione multietnica di cinesi, indiani e malesi che parlano inglese e sono grati al «padre della patria» Lee. Disposizioni e bizzarri divieti di decenni sono ormai interiorizzati. Certo, c’è sempre quella sensazione di collegio a cielo aperto, «un’Asia senz’anima» come la definiscono in molti. Ma funziona.
Crisi di identità
In un Occidente che ha perso slancio, mentre l’Europa è incerta su come ravvivare l’economia e l’America è spaccata politicamente, in Asia il «modello Lee» di sviluppo è diventato ormai il «modello cinese». Ed ha più fascino che mai. La democrazia rallenta il processo decisionale, si sente dire sempre più spesso; libertà e diritti sono concetti sopravvalutati, che fanno perdere di vista le priorità fondamentali. «La gente vuole case, medicine, un lavoro, scuole. Non il diritto di scrivere un editoriale», disse una volta Lee.
Ora però che quelle cose sono date per scontate, Singapore mostra una crisi di identità. È diventata una costosa Disneyland per i Gatsby d’Asia, dove la classe media fa fatica ed è sempre più xenofoba verso la massa di immigrati sottopagati indispensabili all’economia. Il tasso di natalità è più basso persino di quello italiano. Un sondaggio dice che metà degli abitanti vorrebbe emigrare, se ne avesse la possibilità. Alle ultime elezioni il «Partito di azione popolare», da sempre al governo, ha ottenuto il suo minimo storico; e il prossimo anno si torna alle urne. La via del successo seguita nell’ultimo mezzo secolo ha portato fin qui. Ma è ancora valida? Singapore dovrà trovare una risposta in fretta. E la Cina osserverà di nuovo con molto interesse.