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 2015  marzo 24 Martedì calendario

Il caso della modella segregata e violentata per sei mesi. Ventidue anni, svedese, era prigioniera a Cinisello Balsamo. Quando l’hanno liberata era irriconoscibile rispetto alle foto su Facebook. Il suo carceriere l’aveva adescata spacciandosi per manager della moda: già condannato per lo stesso reato, era uscito due anni fa

«Sono al sicuro? Ditemi che è finita. Non lo vedrò mai più, vero?». Solo all’interno di una caserma, tra le scartoffie sulle scrivanie e i calendari dei carabinieri attaccati ai ganci al muro, solo dopo aver capito che i due ragazzi con quelle divise scure l’avevano portata in fondo al tunnel, Lea (il nome è di fantasia, come d’obbligo per tutte le vittime, anche le personalità pubbliche come vedremo tra poco) ha smesso di tremare. Di piangere. Di aver terrore, quello che non l’aveva abbandonata più dall’ottobre del 2014, che la faceva dormire ogni notte con le mani sulla testa nel divano-letto che condivideva col suo carnefice perché i pugni in faccia, i capelli tirati e strappati, la pelle della cinghia, se li portava dietro anche nel sonno. Claudio Rossetto, 41 anni, originario di Grosseto, l’uomo di cui si era innamorata per tre settimane, che le aveva promesso il paradiso della moda e che l’aveva segregata per sei mesi, era a cinque metri di distanza, trattenuto da altri due militari. Urlava, come sempre, in inglese: «Tu non dici niente o stavolta...». Ma stavolta non era più una minaccia.
I carabinieri della compagnia di Sesto San Giovanni, guidati dal capitano Salvatore Pignatelli, lo hanno arrestato per violenza sessuale, sequestro di persona e lesioni. Come già nel maggio 2008, quando un’altra modella si presentò in caserma. Stavolta a Lecco, dov’era arrivata dalla Bielorussia. Aveva 18 anni, raccontò di essersi fidata di un agente, di essere andata a casa sua a Cinisello Balsamo, e invece di passerelle e casting era finita in un box, segregata e stuprata per nove ore prima di scappare in taxi. Rossetto fu fermato, si fece la galera fino al 2013, e il suo nome finì alle cronache come quello del padre Pietro, ricchissimo mediatore immobiliare e re della truffa internazionale che a metà degli anni Novanta finì dentro per riciclaggio di titoli falsi per conto di Cosa Nostra insieme col senatore socialista Salvatore Rapisarda. Ma questo Lea non poteva saperlo. Quel signore che l’aveva contattata su Facebook e poi su Skype a luglio 2014 si presentava bene. Inglese fluente, modi galanti, una valigia di promesse: pubblicità, sfilate, tv e poi chissà che altro. Non sembrava una delle tante facce che girano nel sottobosco dei concorsi di bellezza italiani, che Lea aveva già assaggiato a maggio, in Salento, strappando una fascia minore a Miss Progresso.
Svedese, 22 anni, origini polacche e fisico statuario, in patria Lea si era fatta un piccolo nome. Finalista per Miss Universo 2013, una partecipazione a “Paradise Hotel” (reality show di genere tamarro), poi il richiamo del fashion system italiano, sognato attraverso i messaggi che Rossetto aveva preso a spedirle. Così, dopo un altro concorso all’inizio di settembre 2014 – Miss Europe Continental, con tanto di defilée alla Reggia di Caserta – Lea aveva preso l’aereo per Malpensa e aveva raggiunto Rossetto. Un giro per locali a Milano, l’offerta di un posto per passare la notte a Cinisello Balsamo, la scintilla era nata quasi subito. «Per le prime tre settimane – racconterà poi la ragazza ai carabinieri – sembrava la persona più dolce del mondo. Voleva sposarmi, diceva che sarei stata la madre dei suoi figli. Era un idillio. Un giorno mi disse che avrei potuto smettere di lavorare. E da lì cominciò a diventare uno sconosciuto». Sbalzi d’umore, accessi d’ira: l’innesco è quello che ha fatto la letteratura di genere. «Mi picchiò – continua Lea – stavamo insieme da venti giorni. Mi chiese subito scusa. Avevo paura, cominciai ad assecondare le sue richieste, anche se da quel momento non ho più avuto rapporti consensuali».
Cominciò la prigionia. Fatto di stupri, di telefonino sequestrato e poi distrutto, di divieto di navigare su internet. Unici contatti concessi, quelli con la mamma in Svezia, ma solo in chat o al telefono di Rossetto, che controlla. E solo in inglese, per non permettere sos in codice. Maria, la madre di Rossetto che condivide i sessanta metri quadri col figlio, vedeva e sentiva: «Ma parlavano in inglese, non capivo», si giustificherà in caserma. «Mi dava pugni in bocca – ricostruisce la ragazza – e calci all’addome. Un giorno mi strappò le extension dei capelli. Non potevo truccarmi né vestirmi come volevo, dovevo ripetergli ogni giorno che lo amavo, ero in totale soggezione. Non mi faceva fare mai nemmeno colazione, solo due pasti al giorno». In tanti, nell’elegante condominio, sapevano. Ma ci vorrà l’ennesimo pestaggio, la mattina di sabato 21 marzo, perché qualcuno segnali al 112 «una lite familiare». Colpa di un tavolino, che Lea aveva comprato coi soldi spediti dalla madre ma senza permesso del suo carnefice. I carabinieri la troveranno chiusa a chiave. Pallida, livida, magrissima. Un rapido controllo d’archivio, i bisbigli in inglese di quel fantasma biondo rapidamente tradotti, ed ecco la liberazione. Lea piange, li abbraccia, crolla. Stress post-traumatico, le diagnosticheranno in ospedale.