La Gazzetta dello Sport, 24 marzo 2015
Il ministro Giuliano Poletti, che sovrintende al Lavoro e viene dalle cooperative rosse, ha fatto arrabbiare gli studenti italiani dichiarando ad un convegno che tre mesi di vacanza a scuola sono troppi, che si potrebbe sfruttare quel periodo per far fare ai ragazzi più grandi qualche esperienza di lavoro, «i miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse

Il ministro Giuliano Poletti, che sovrintende al Lavoro e viene dalle cooperative rosse, ha fatto arrabbiare gli studenti italiani dichiarando ad un convegno che tre mesi di vacanza a scuola sono troppi, che si potrebbe sfruttare quel periodo per far fare ai ragazzi più grandi qualche esperienza di lavoro, «i miei figli d’estate sono sempre andati al magazzino della frutta a spostare le casse. Sono venuti su normali, non sono speciali».
• Che dicono gli studenti?
Sappiamo di due prese di posizione, entrambe alquanto furibonde, provenienti dall’Unione degli Studenti e dalla Rete degli Studenti medi (sigle che mi auguro rappresentino qualcuno). Alberto Irone, della Rete: «Semmai è necessario regolamentare e inserire percorsi formativi diversi da quelli didattici all’interno del percorso scolastico. Diversamente, a oggi, le studentesse e gli studenti che lavorano vengono sfruttati in ogni modo possibile e privati di qualsivoglia diritto».
• Bum! Abbiamo un nuovo lumpenproletariat e non ce ne siamo accorti.
L’Unione è più o meno sulla stessa linea: «follia», «il governo non sta facendo altro che privare ulteriormente gli studenti dei propri diritti e di tutele adeguate», «crediamo che gli studenti debbano essere liberi di costruire il proprio percorso scolastico e che non debbano essere costretti a lavorare privati di qualsiasi tutela per garantire manodopera stagionale a basso costo. Introdurre questo dibattito sottolineandone la caratura educativa è semplicemente una follia». Cioè secondo l’Unione la provocazione del ministro Poletti, se abbiamo capito bene, avrebbe l’unico scopo di garantire manodopera a basso costo alle aziende. C’è anche la frase, assai azzardata, «scaricare cassette in un magazzino non è un’esperienza formativa…» che non possiamo condividere, e non ce ne voglia alcuno. È forse interessante la controproposta della Rete: «La priorità dovrebbe essere quella di redistribuire le pause in modo più equilibrato all’interno dell’anno e non legalizzare lo sfruttamento degli studenti». La parola “sfruttamento” c’entra come i cavoli a merenda, ma la questione delle pause, degli orari, della maniera più intelligente con cui far maturare gente evidentemente immatura, avendo ancora pochi anni e poca esperienza, esiste. Poletti poi è un vecchio comunista, queste risposte degli studenti lo faranno soprattutto ridere.
• Il vero ministro della Pubblica Istruzione che dice? Le associazioni dei professori o magari i sindacati?
Quasi tutti zitti. Ha parlato a Repubblica il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Giorgio Rembado: «Tre mesi sono un distacco troppo pronunciato, alla fine si rischia di dimenticare le cose imparate. Ma in Italia non mancano giorni di lezione, anzi. Servirebbe magari un diverso calendario scolastico...». Poletti ha il torto di aver affrontato un tema non all’ordine del giorno. Può darsi che anche a Renzi, impegnato nella riforma della cosiddetta “buona scuola”, l’uscita abbia dato fastidio. Anche se ieri il presidente del Consiglio è tornato sull’argomento scuola, parlando agli studenti della Luiss: «Questo è il luogo in cui ci giochiamo il futuro. Abbiamo bisogno di fare una scommessa in questo settore: c’è bisogno di scuola, è la sfida culturale che dobbiamo vincere al tempo del terrorismo».
• All’estero come fanno?
Nella maggior parte dei paesi il sistema scolastico non è affidato a un organismo centrale, come il nostro ministero della Pubblica Istruzione (secondo Sergio Ricossa la più grande azienda del mondo dopo il Pentagono). Si lascia che l’organizzazione – reclutamento, vacanze, fino alla definizione dei programmi – sia decisa a livello locale, ma non dagli studenti, ma da coloro che devono fornire il servizio, cioè direttori d’istituto e insegnanti, come è ovvio. Hanno un sistema decentrato inglesi, tedeschi, spagnoli, svedesi, ed è giusto, se ci pensa, perché la scuola è il pezzo di stato che sta più a contatto con le famiglie, dunque è giusto che prevalga una logica di territorio più che una logica di burocrazie.
• Quindi orari, vacanze eccetera sono decisi in loco? E perché da noi non si fa così, tanto più che ci sono tante differenze, anche climatiche, tra Sud e Nord?
Perché la scuola è sempre stata un formidabile strumento di sottogoverno, fabbrica di voti, clientele eccetera. E prima di tutto la Dc - che non mollò mai quel ministero - aveva bisogno di questa macchina del consenso. È sempre prevalsa cioè, una logica accentratrice, come del resto anche in Francia dove tutto è in mano al Ministère de l’Education nationale: cinque giorni di scuola a settimana, 160 giorni d’impegno ad anno scolastico (da noi sono più di duecento), sei ore di lezione al giorno e questa intelligente peculiarità: per evitare un eccessivo sovraffollamento nelle zone di villeggiatura la nazione è divisa in fascia A e fascia B, e le due fasce non vanno mai in vacanza insieme. Da noi l’anno scorso parecchie scuole organizzarono la settimana corta perché non avevano fondi per tenere aperto sei giorni su sette. I nostri problemi, mi creda, sono tipicamente nostri.