Corriere Economia, 23 marzo 2015
«Rassegnatevi, la ricetta Usa terrà bassi i prezzi del petrolio ancora a lungo. Il barile rimarrà tra i 40 e i 60 dollari». Parla Ian Bremmer, fondatore e capo di Eurasia, il maggior centro di analisi dei rischi geopolitici ed economici internazionali
La riduzione del dividendo pagato agli azionisti è cosa normale per un’impresa quando il business nel quale opera perde colpi e calano i profitti. Non nel settore petrolifero: la Shell non taglia i dividendi dal 1945, la ExxonMobil li ha incrementati ogni anno per oltre tre decenni. La scelta «rivoluzionaria» fatta qualche giorno fa dall’Eni dovrà alla fine essere seguita anche dalle altre majors o le compagnie pensano di assorbire gli effetti del crollo dei prezzi del greggio in attesa di una loro almeno parziale ripresa? Siamo in una inverse bubble, una bolla che sgonfia troppo i prezzi dopo quella che li ha gonfiati eccessivamente?
Lo chiedo a Ian Bremmer, fondatore e capo di Eurasia, il maggior centro di analisi dei rischi geopolitici ed economici internazionali, reduce da una full immersion da Calgary, capitale canadese dell’energia.
«Non posso entrare nel merito di come le singole compagnie reagiranno a questo calo choc dei prezzi – risponde Bremmer -. Ognuno farà le sue scelte. Quello che so per certo è che una risposta dovranno darla perché il sistema dei prezzi dell’energia è cambiato in modo radicale e strutturale. Non vedo bolle in giro. Si pensava che i prezzi sarebbero risaliti per un crollo della produzione – e quindi dell’offerta – americana. E invece, nonostante i prezzi siano da mesi attorno ai 50 dollari al barile rispetto ai 110 di non molto tempo fa, l’estrazione degli Stati Uniti non è, fin qui, affatto diminuita. Cali potranno esserci in futuro, ma saranno brevi e limitati. A questo punto tutte le majors, anche le supermajors, devono rimboccarsi le maniche: qualcuna diversificherà impegnandosi di più in attività alternative, altre risponderanno aumentando la loro efficienza produttiva e investendo di più in tecnologie. Avverrà soprattutto nel fracking. C’è anche chi restringerà il suo perimetro di attività. L’ho appena visto a Calgary: compagnie che ormai eravamo abituati a considerare globali che chiudono molte attività internazionali. Ci sarà anche chi dovrà tagliare i dividendi. Non c’è una risposta uguale per tutti. Ma tutti dovranno fare qualcosa di incisivo».
Eppure il crollo dei prezzi ha messo fuori mercato molti siti produttivi nei quali i costi di estrazione sono elevati. Nei soli Stati Uniti sono stati chiusi ben 684 pozzi petroliferi, rispetto a un anno fa. Perché la produzione non cala?
«Perché la tecnologia continua a migliorare e riduce i costi di estrazione. Perché il mercato è sempre più decentrato. E perché c’è una tendenza a mantenere attiva la produzione anche quando non è remunerativa. I fattori in gioco sono tanti. Ad esempio il regime di tassazione del North Dakota che offre sussidi quando i prezzi scendono. Poi, anche quando opti per la chiusura di un pozzo, passa molto tempo tra la decisione e l’attuazione. Ripeto, qualche effetto di questi tagli lo vedremo nella produzione dei prossimi mesi, ma sarà poca cosa».
Ci sono anche analisti convinti che, con un accordo Washington-Teheran sul nucleare, le sanzioni potrebbero cadere consentendo all’Iran di aggiungere un altro milione di barili alla produzione mondiale. Sostengono che in questo caso i prezzi del Brent e del West Texas, oggi attorno a quota 54 e 44 dollari, potrebbero scendere rispettivamente sotto quota 50 e, addirittura, sotto quota 40 per il greggio texano.
«Io credo che i prezzi resteranno deboli ma non in modo così estremo. I fattori geopolitici internazionali porteranno a una stasi o a una lieve contrazione della produzione, non a un suo ulteriore aumento. La guerra civile in Libia ha strozzato la ripresa della produzione. E l’esito delle elezioni in Nigeria potrebbe alimentare nuove tensioni e scontri destinati a incidere negativamente sull’estrazione. Quanto all’Iran, anche in caso di accordo, non credo che il Congresso Usa accetterà tanto presto di togliere le sanzioni. Se, invece, il negoziato non porterà a nulla, Obama non potrà più opporsi all’adozione di sanzioni aggiuntive. Insomma, diciamo che in materia di prezzi io sono un po’ più bullish di altri. Ma solo un po’: penso che nell’orizzonte limitato che siamo in grado di prevedere avremo quotazioni oscillanti tra i 40 e i 60 dollari al barile».
Nessuna possibilità che l’Opec o altri – a suo tempo l’Arabia Saudita aveva trattato con Russia e Messico senza arrivare a nulla – si mettano d’accordo per limitare la produzione e far salire i prezzi? Non pensa, come sostengono i sauditi, che il calo delle quotazioni sia stato eccessivo, anche per l’effetto psicologico delle varie «teorie dei complotti» come quella che vorrebbe Arabia e Usa alleati contro Mosca?
«Non credo ai complotti: questi prezzi sono frutto delle forze di mercato. I russi ostentano autonomia e forza, Putin vuole dimostrare che può continuare a produrre a pieno regime. I sauditi sono stati sorpresi dalla rapidità del calo dei prezzi. L’Opec è totalmente frammentata, non è più nemmeno un’organizzazione. Se vedremo accordi in futuro, saranno fuori dal vecchio “cartello”, l’Arabia con qualche altro grosso produttore. Ma ormai il maggiore sono gli Stati Uniti, che hanno interesse a tenere i prezzi bassi. Sarà così per almeno due anni».
Per Paesi consumatori come l’Italia solo vantaggi, d’accordo. Ma per gli Usa che sono anche produttori? E nel Golfo, dove gli sceicchi erano diventati di certo troppo ricchi, non si rischiano rivolte per il brusco calo di queste ricchezze?
«Per l’America vedo quasi solo vantaggi. Certo, il Texas soffrirà un po’, perderà posti di lavoro, ma la benzina a buon mercato aumenta il reddito disponibile dell’intero ceto medio Usa, da tempo sotto pressione. Quella americana è un’economia con un motore incredibilmente diversificato: il basso costo dell’energia è il suo miglior carburate. I sauditi e gli emirati certamente soffriranno. All’inizio il prezzo lo pagheranno soprattutto l’Egitto, il Libano e la Giordania: i Paesi che ricevono massicci sussidi dalle nazioni arabe petrolifere. Questi aiuti verranno tagliati, con nuovi rischi di instabilità. Non sono cose da poco: è per una situazione simile che Cuba è crollata e si è aperta al mercato Usa. Poi, se il petrolio resterà a lungo a 50 dollari, i problemi economici e sociali potranno diventare gravi anche nelle capitali arabe del Golfo. Un’instabilità della quale dovremo preoccuparci, e anche parecchio, visto quello che è successo dopo la “primavera araba”. Ma non è un problema immediato».