Corriere della Sera, 23 marzo 2015
Attilio Bertolucci e il senso straordinario delle diverse epoche storiche, tutte racchiuse in una raccolta di versi inediti del poeta parmigiano
Paolo Lagazzi, il miglior studioso di Attilio Bertolucci, ha raccolto in un libro ( Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Diabasis ) i bellissimi versi inediti del poeta parmigiano. Essi risalgono in parte alla sua giovinezza: ma, nella maggior parte, sono frammenti caduti dal capolavoro, La camera da letto.
Appena pensa al Viaggio d’inverno, il precedente libro di versi di Bertolucci, il lettore si accorge che ogni paragone è fuori luogo. La camera da letto non è una raccolta di liriche, perché rinuncia al tentativo di vincere il tempo in una folgorazione. Bertolucci sembra trattenere, moderare, mitigare i propri toni lirici. La camera da letto raccoglie l’ambizione suprema del romanzo: concentrare in un volume lo spazio e il tempo, percorrendo inquietamente gli spazi che dividono l’Appennino tosco-emiliano, la Pianura padana e la Versilia, accumulando il tempo di due secoli, il tempo minuzioso di infinite giornate, cosicché, alla fine, ci sembra che i nostri occhi, le nostre mani e le nostre membra si facciano tempo e grondino tempo.
Tra i romanzi, il libro di Bertolucci pare avvicinarsi ai «romanzi di formazione», come i Lehrjahre di Goethe ( Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister ) e la Recherche di Proust, dove la vocazione dell’artista è raccontata nel suo svolgimento; e questo libro è immerso, a sua volta, nella storia di una famiglia, come ne conobbe l’Ottocento. Appena il lettore ha avanzato questi raffronti, deve di nuovo cancellarli dalla mente. Il miele dolcissimo e vischioso nel quale affonda è il miele della poesia, l’attenzione meticolosa che deve portare a ogni aggettivo e a ogni virgola è la stessa che deve portare agli aggettivi e alle virgole di Keats e di Baudelaire. Così egli viene posto di nuovo di fronte allo scandalo di questo libro – ora poema, ora romanzo, ora lirica, per combinare tutte le forme in una forma mai vista.
Con la Recherche, La camera da letto ha un altro punto in comune: la convinzione che tutta la realtà, soprattutto la realtà minima, quotidiana, insignificante, possa essere riflessa nello specchio dell’opera d’arte. Non c’è altro libro moderno che rappresenti in maniera così indimenticabile la vita familiare italiana nell’ultimo secolo. C’è tutto quello che vogliamo conoscere: il nonno, il padre e la madre, i rapporti tra i membri della famiglia: le domestiche, le stiratrici, le cucitrici, le bambinaie, i mezzadri: tutti gli usi e le abitudini – quando e come si pranza e si cena, le ore delle colazioni e dei sonni, come si guida la carrozza, come si passeggia, come si chiude la cuffia da bagno, come ci si spalma lentissimamente l’olio di noce sulle membra nude —: l’arnia ronzante della casa, i mobili e gli oggetti che la riempiono, le luci e le ombre che tingono i muri; la pellicciaia, la pescivendola, il macellaio, il panettiere, il droghiere che si frequentano in città. Nessuna tensione metafisica attraversa questo mondo come folgora il mondo di Giorgio Caproni. La religione di Bertolucci è una religione dei corpi, del sonno oscuro, del cibo cieco, dei sensi opachi, della vita ripetuta e rituale della famiglia. Tutto ciò che esiste – il tempo, la vita, la morte, i desideri, i colori, le ombre – viene accettato, giustificato e santificato.
Come ogni vero romanziere, Bertolucci possiede un senso straordinario delle diverse epoche storiche. Non ha bisogno di molto per rievocarlo: gli basta ricordare un nome, un colore, un’abitudine, il titolo di un libro, perché il 1790 o il 1910 o il 1930 risuscitino davanti ai nostri occhi. Eppure, il tempo storico non è il vero protagonista di questo libro. Chi regna, sopra la casa di campagna, la casa di città e quella di montagna, è il tempo atmosferico e ciclico della natura. Questo libro familiare è retto da una sapienza meteorologica simile a quella di uno sciamano o di un contadino – l’unica, forse, che possa conoscere un uomo. Bertolucci sa cosa siano le dieci di mattina, le tre o le cinque di sera – le loro varie forme e combinazioni nelle stagioni dell’anno; e qualche volta si direbbe che egli voglia raccogliere nel proprio libro tutti i soli, le lune, i cieli, i temporali, le piogge, le nebbie, le brume che si sono avute nell’Appennino e nella Pianura padana nel corso di un secolo. Mai (o con una sola eccezione) abbiamo sentito, come qui, che le ore possono essere dei veri personaggi romanzeschi.
Alla fine le scene, sebbene così fitte di richiami precisi, lasciano la loro epoca storica e si adunano in un sterminato presente, nel regno «del vergine, del vivace, del bel giorno d’oggi», come dice Mallarmé amorosamente tradotto. Nessuna evoluzione conduce dalla migrazione dei cavalli maremmani, avvenuta nel Seicento, al 1933, quando la prima parte del poema si arresta. Per avere una giusta idea del libro non dobbiamo immaginarlo diviso in parti, o canti o sequenze. Con gli occhi della mente dobbiamo immaginare una sola immensa tela, dipinta da un emulo di Monet o di Bonnard: dove le ninfee e le barche, i personaggi, gli eventi e le sensazioni – segnati dal tempo ma avulsi da lui – si frequentano e si visitano, abitando la stessa giornata interminabile nella quale le stagioni si alternano.
Quanta luce vi è in questo libro: come il sole illumina, splende, barbaglia, acceca – attira nel plein air dei campi o dei sentieri di montagna l’innamorato della chiusa vita familiare. Sembra che nulla possa ostacolare la luce: bagna tutta la terra e poi penetra negli interni, nella camera da letto o nella stanza da pranzo. Quando cala la sera, la luce delle candele, delle lucerne, delle stufe, dei camini e delle lampadine la prolungano, per impedire che «si avveri senza resistenza il dominio del nero». Ma quanta ombra si allunga. Non sappiamo se sia un riflesso simbolico della luce, o se l’ombra nasca da un principio più remoto e più profondo della stessa notte e si insinui dovunque si è posata la luce e la cancelli, senza pietà per le creature che Bertolucci ha evocato.
Il cuore del libro è la camera da letto. Qui avviene il doppio peccato: il peccato amoroso, che bagna le membra dei coniugi, e il peccato edipico; doppio peccato che costituisce l’essenza della famiglia borghese e la rende compatta e l’incrina e l’avvolge con la sua ombra lunghissima. Così, nell’anima del figlio bambino, che diventerà poeta, nasce l’ansia. Il cuore batte troppo forte e veloce nel piccolo petto; e d’ora in poi il libro è segnato da questo battito fittissimo, che si sovrappone al ritmo dell’universo.
L ’ansia uccide l’indifferenza: accresce l’intensità di tutte le cose: getta il bambino, l’adolescente, il giovane verso tutte le superfici, e queste risvegliano in lui un eccesso di gioia e di dolore, una furia di passione, uno stato febbrile di sentimenti. I l ragazzo non vuole che il tempo passi e si consumi: non tollera che una giornata si sostituisca a un’altra giornata, e cerca di arrestarla e di trattenerla accanto a sé, come un presente rallentato.
Il bambino, predestinato a diventare poeta, cresce nella solitudine: «Se piange non si fa sentire, se gioca vuole stare solo»; ora nell’ossessione delle mura familiari, ora nella levità del plein air. L’ansia, che lo fa soffrire, è anche il suo talismano e la sua difesa: genera in lui una malattia, una piccola febbre quotidiana che gli permette di crescere senza partecipare alla realtà. Sebbene così sensibile, egli riesce a sottrarre all’esistenza ogni possibilità di tragedia e a viverla come quella cosa «così bella, così leggera, così breve» di cui parlava Tolstoj.
Non vuole maturare, innamorarsi e sposarsi, avere un mestiere, come gli uomini della realtà: vuole continuare a vivere «nel bozzolo dorato e sonoro» dell’adolescenza e della poesia giovanile; e, quando si innamora e si sposa, con le sue arti metà inconsce e metà consce riesce a conservare intorno a sé l’irresponsabilità febbrile del giovane.
Molti diranno che questo è soltanto l’itinerario classico di un nevrotico. Credo che, davanti a questo libro, sia molto più importante osservare come la malattia abbia permesso a Bertolucci di accogliere tutti i tesori dell’esistenza nel lago della sua anima, senza alzare mai la voce, senza un solo attimo di volontà o di tensione, senza deformare le sensazioni. Il poeta che ha scritto La camera da letto possiede un equilibrio sovrano del cuore, una delicata equanimità e mitezza della mente, una giustezza sottile dello sguardo, come se tutta la passione dei nervi si fosse estenuata e rovesciata nel proprio contrario.
Lo stile della Camera da letto è il più molteplice della letteratura italiana. Vi è il verso libero, endecasillabi e settenari, falsi endecasillabi e falsi settenari della tradizione leopardiana, che meglio si presta a raccontare: il verso petrarchesco chiuso in sé stesso: la prosa da cronaca familiare: il verso esametrico o iperesametrico, che discende da Omero e da Whitman con aggettivi formulari che sanno di Odissea : versi tronchi che ricordano i versi incompiuti di Virgilio, e improvvise tensioni liriche.
Come talvolta nel Viaggio d’inverno ma con una maestria più scopertamente ironica, abbiamo immensi periodi ramificati: i periodi-proustiani, i periodi-rete, i periodi-maglia, i periodi-cappotto, i periodi-lenzuolo, i periodi onniavvolgenti che stringono e amalgamano insieme – con incisi e parentesi successivi e arditi gerundi e participi presenti – gli eventi, i personaggi e le sensazioni più remote e dissonanti, le analogie più fuggitive dell’immaginazione. Noi siamo sempre meravigliati sia dalla mite malleabilità di una mente che accoglie tutti i rapporti della materia, sia dalla deliziosa sconnessione di questi rapporti.
Malgrado una simile sintassi, i fatti (soprattutto i grandi fatti) sono sempre elusi: c’è l’antefatto e l’eco o le cause e le assonanze dell’evento, non c’è mai l’evento: tutto è sfocato; il profilo, le linee e le dimensioni di un oggetto si perdono nell’atmosfera indefinitamente vibrante. Alla fine non ricordiamo più l’immagine: come se Bertolucci, supremamente lieve, le avesse disegnate col dito su un vetro, in un giorno d’inverno; ora tutto si è cancellato – e noi ricordiamo soltanto il vasto fondo risonante di ansia, trepidazione, inquietudine, felicità.