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 2015  marzo 23 Lunedì calendario

Se ne parla da quattro giorni, ma il primo atto formale vero e proprio è stato siglato ieri sera: la Pirelli sta diventando cinese, i cinesi avranno il 51% del capitale, Tronchetti Provera resterà a capo dell’azienda fino al 2021, il centro operativo resterà in Italia, ma la Pirelli è cinese, di fatto, già da oggi

Se ne parla da quattro giorni, ma il primo atto formale vero e proprio è stato siglato ieri sera: la Pirelli sta diventando cinese, i cinesi avranno il 51% del capitale, Tronchetti Provera resterà a capo dell’azienda fino al 2021, il centro operativo resterà in Italia, ma la Pirelli è cinese, di fatto, già da oggi. Tronchetti aveva annunciato che tutto si sarebbe concluso entro il week-end, per non lasciare stamattina i mercati nell’incertezza. E così è stato.

• Dobbiamo essere contenti oppure no?
Come si fa a rispondere a questa domanda con sicurezza? I cinesi investono in Italia e, in astratto, questo significa che il Paese è ancora attraente. Seconda considerazione: nessuno è in grado di opporsi alla cosiddetta globalizzazione, la quale consiste appunto in questo: i soldi si muovono da qualunque punto del mondo verso qualunque altro, i confini delle nazioni avendo sempre meno senso (come si vede drammaticamente in Medio Oriente). Terza considerazione: con un partner ricco di denari, Pirelli non potrà che crescere. Siamo abituati ai capitalisti nostrani, in genere col braccino cortissimo quando si tratta di capitalizzare le aziende proprie, stavolta c’è un capitalista seduto su una montagna di quattrini e pronto a investire.

• Chi è?
Un’azienda che si chiama China National Chemical Corporation, abbreviata in ChemChina. 140 mila dipendenti, 40 miliardi di fatturato, asset per altri 43. Ha una storia in qualche modo simile a quella della Pirelli: nel 1984 un certo Ren Jianxin apre con sei amici una piccola fabbrica di detergenti per teiere nella provincia di Gansu. Versano un capitale di 10 mila yuan, cioè 1.500 euro in tutto, vale a dire poco più di duecento euro a testa. Dalle teiere Ren s’allarga alla pulizia delle caldaie, a quella degli impianti industriali, a quella del centro di lancio di navi spaziali Shenzhou e, insomma, quando, nei primi anni Novanta, Pechino ristruttura il settore statale cedendo rami pubblici all’apparenza moribondi, Ren compra in un solo colpo 107 aziende, facendole poi ben fruttare. Il conglomerato, col nome di ChemChina, è tornato pubblico nel 2004, con Ren sempre al timone. La Pirelli nasce molto prima: nel 1872, persuadendo un gruppo di banche a prestargli i soldi, Giovanni Battista Pirelli fonda a Milano una piccola fabbrica di «articoli tecnici di caucciù vulcanizzato». L’azienda arriva in Borsa nel 1922. E adesso, dopo 93 anni, i cinesi pensano di toglierla da Piazza Affari.

• Come mai?
Bisogna dire qualcosa sull’operazione. Intanto: Tronchetti aveva il controllo di Pirelli attraverso una scatola finanziaria che si chiama Camfin e il cui possesso è condiviso con i russi di Rosneft. In pratica: in questa Camfin è stato piazzato il 26% della Pirelli, e questa quota basta ad avere il controllo della società (abbiamo spiegato tante volte lo sciagurato sistema italiano delle cosiddette «scatole cinesi» e, ironia della sorte, adesso queste scatole saranno cinesi sul serio). Quindi, quando diciamo «Tronchetti Provera vende la Pirelli a ChemChina» diciamo che Tronchetti e gli amici di Mosca vendono di fatto la Camfin. I cinesi compreranno attraverso una società di nuova costituzione che, in base a un comunicato di ieri sera, dovrebbe chiamarsi Bidco. Per questa acquisizione, i cinesi sborseranno in favore dei soci Camfin 1,9 miliardi. Tronchetti e i russi metteranno parte di questi 1,9 miliardi nella Bidco ((benché esista già una Bidco, società petrolifera africana). Poi la Bidco lancerà un’Opa su tutta la Pirelli. Lei ricorda che cos’è un’Opa?

• Sarebbe meglio…
Un’Offerta di Pubblico Acquisto: annuncio che pagherò le azioni 15 euro (sarà certamente di più), compro tutto quello che mi consegnano (azioni ordinarie e di risparmio) e considererò l’operazione riuscita, saldando quindi i venditori, se raggiungerò almeno una certa quota entro una data prestabilita. I dettagli non li conosciamo e c’è il fastidio di un socio di minoranza - Vittorio Malacalza, il salvatore di Banca Carige - che ha il 7%, e non vuole vendere. Ma insomma: i cinesi vogliono il cento per cento, ma gli basterà arrivare poco sotto al 70% per dominare le assemblee e decidere il cosiddetto delisting, cioè il ritiro dalla Borsa di tutte le azioni. Al costo complessivo di 7 miliardi. Si procederà poi a una serie di scorpori e di riaccorpamenti, e poi si tornerà in Borsa. Ma sono dettagli che conosceremo meglio in seguito e che comunque non incidono sull’intesa di ieri sera: la milanese Pirelli, quella del grattacielo di Gio Ponti, si è virtualmente trasferita a Pechino.

• Obiezioni?
I nostri sindacati mugugnano spaventati. Altri chiedono: tra cinque anni ChemChina non si porterà tutto via? come mai vengono a investire da noi capitalisti di un certo tipo - i cinesi, ad esempio, pochissimo trasparenti - e non quelli del cosiddetto mondo libero, i quali sarebbero più trasparenti? È solo perché i soldi in Occidente sono finiti, e montagne di dollari ed euro stanno nelle casseforti di Pechino? i cinesi si stanno comprando le aziende occidentali con i soldi che in passato hanno drenato agli stessi occidentali, allegri di far debiti? C’è materia, come vede, per molti saggi ancora da scrivere.