il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2015
I numeri di Facebook sono segreti, eppure in Italia il social network di Zuckerberg dice di aver creato 70mila posti di lavoro
Chiedere a Google, Facebook, Twitter e Spotify di parlare di dati economici legati alle loro attività è come cercare di svelare un mistero religioso. Che siano in positivo o in negativo, le cifre che si conoscono sono spesso elaborazioni di enti autonomi. Da ieri, però, sappiamo che i 20 milioni di utenti che ogni giorno si collegano a Facebook dall’Italia producono un impatto economico pari 5,65 miliardi di euro. Due più della Spagna, uno meno di Francia e Germania, cinque meno della Gran Bretagna e tre in più rispetto a due anni fa. E questo numero, elaborato da Deloitte su mandato di Facebook, si traduce nella creazione di 70mila posti di lavoro.
Il dato è stato presentato ieri al ministero dello Sviluppo Economico e dà un quadro di quanto l’azienda statunitense, fondata da Mark Zuckerberg nel 2006, stia permeando e influenzando il tessuto produttivo, sia delle piccole e medie imprese che delle grandi realtà industriali.
Circa tre miliardi sono generati dal marketing e provengono dall’indotto di aziende e agenzie di comunicazione che utilizzano la piattaforma per pubblicizzare i loro clienti. La pubblicità produce posti di lavoro tramite Facebook perchè incrementa i dipendenti delle agenzie di marketing che curano le pagine aziendali, che promuovono le inserzioni, che categorizzano gli utenti, che tracciano un programma d’azione basandosi sui nuovi linguaggi.
Ci sono poi 2,1 miliardi prodotti nell’ambito della Connectivity: in italiano, la cifra corrisponde al giro economico che Facebook produce in termini di traffico telefonico e produzione di dispositivi compatibili con la piattaforma. Negli ultimi tre anni, il numero di accessi a Facebook da dispositivi mobile, cioè smartphone e tablet, è passato da zero a 18 milioni. È per questo che banda larga, reti telefoniche e antenne, come Rai Way, siano tanto ambite dalle aziende italiane.
L’ultima posizione, con 0,7 miliardi, è occupata dal settore di sviluppo di applicazioni e sistemi per la piattaforma. Pochi rispetto alla media globale, ma un buon risultato se si considera che l’Italia è, secondo le statistiche, al di sotto della media europea nell’uso di Internet, con un ritmo di crescita minore rispetto agli altri paesi europei. Lo dice il governo stesso. O meglio, lo dice Marco Simoni, economista e oggi consigliere economico di Matteo Renzi: “Se ci connettessimo a Internet come gli olandesi – spiega – ci sarebbero 250mila posti di lavoro in più in Italia. Se fossimo come i francesi, ce ne sarebbero 70mila in più”.
La tecnologia accusata di portar via lavoro, in realtà lo crea. “Il business di Facebook – spiega al Fatto Luca Colombo, 46 anni e alla guida di Facebook in Italia – si basa sulla connessione tra le persone. Su di loro creiamo un’impresa. Non tanto sulla tecnologia, che in fin dei conti è semplice da sviluppare e banale come può esserlo un tasto (Facebook ha solo 9 mila dipendenti in tutto il mondo, a fronte di 1,93 miliardi di utenti ndr), quanto sulla possibilità di mettere in collegamento le persone, riempire un gap comunicativo”.
In altri termini, Facebook scopre i gusti dei suoi iscritti con la scusa della comunicazione, raccoglie dati e informazioni (i cosiddetti big data) e li rivende alle agenzie e alle aziende in forma di Partnership pubblicitarie o agli inserzionisti sotto forma di pubblicità targettizzata, costruita sul destinatario. “Quando si parla di big data – spiega Colombo – si pensa sempre che si stia parlando di dati sensibili, magari rubati in conversazioni private. Da qui scaturiscono tutte le polemiche legate alla privacy. Invece il web è pieno di dati che si possono raccogliere nel pieno rispetto della privacy, ma che richiedono un’analisi attenta per poi tradursi in offerte commerciali mirate e creare valore”.
Niente è mai gratis, da Facebook alle mail. Paghiamo in informazioni personali e, secondo molti, in elusione fiscale. I grandi monopolizzatori del web hanno sedi in Paesi con regimi fiscali agevolati e spesso non pagano le tasse sul valore prodotto in Italia. “Alcuni grandi operatori sono monopolisti – spiega Marco Simoni – producono in Italia valore su cui non pagano le tasse e gestiscono come vogliono i dati degli utenti. E su questi due temi serve un ragionamento europeo. Non si possono evitare, altrimenti tra 20 anni questo sistema esploderà”. Parola di governo.