la Repubblica, 20 marzo 2015
Perché la democrazia tunisina è un affronto per la jihad. Dalle riforme di Bourguiba al patto tra islamisti e laici. La lunga e strana dittatura del padre della patria introdusse diritti impensabili nel mondo arabo. La cacciata di Ben Ali diede il via alle Primavere nel 2011. Oggi l’intesa tra Ennahda e Nidaa Tounes ha spezzato la complicità con i salafiti. Ma Al Qaeda ha fatto breccia anche qui
L’attentato al Museo del Bardo, a Tunisi, riassume gli obiettivi dell’islamismo jihadista. È avvenuto in un alto luogo di cultura, dove si trova una delle più ricche collezioni di mosaici romani; ha investito dei kafir, miscredenti occidentali; ha colpito il Paese in cui si sta dimostrando che la democrazia è compatibile con una società musulmana. È probabile che gli autori non abbiano calcolato tutti questi tre aspetti della loro azione; o che comunque non fossero consapevoli di quanto essi sintetizzino insieme la natura del conflitto che hanno scatenato. Il museo è un tempio sacrilego in cui si contemplano opere che violano il principio iconoclasta dell’Islam che si vuole ortodosso. I turisti sono infedeli venuti a inquinare la terra musulmana. Con la sua democrazia ricalcata su quelle occidentali, con le libertà concesse alle donne, e con l’alleanza tra islamici e laici, la Tunisia è un pessimo esempio da combattere.
Il principale obiettivo è senz’altro la Tunisia che si è dotata di una Costituzione moderna, non ispirata alla Sharia, la legge coranica, e in cui sono riconosciuti pari diritti a uomini e donne. Ferire il paese nel grande museo gremito di visitatori stranieri, significa colpire il turismo, una delle sue più importanti risorse. Che occupa un cittadino su dieci, e che rappresenta quasi il dieci per cento del prodotto nazionale. Ma interrompere il flusso degli europei in vacanza significa anche spezzare il pacifico legame tra l’Europa e la Tunisia. Senz’altro una delle spiagge più ospitali e amiche sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Ci sono poi gli investimenti stranieri, che danno lavoro ai giovani, pronti ad andarsene se minacciati dal terrorismo. La disoccupazione ha spesso come conseguenza l’emigrazione avventurosa verso il Nord, al di là del mare, con i pericoli, le tragedie, che sappiamo. La Tunisia è un Paese spigliato, ricco di risorse intellettuali, ma privo di materie prime. Non ha il petrolio dei vicini.
È stretta tra l’Algeria a Ovest e la Libia a Est. I confini sono profondi e si spingono nel deserto. Sono quindi permeabili. E lo sono anche perché il commercio è una delle grandi risorse e il traffico di merci e persone non va ostacolato. Le città tunisine, Sfax, Sousse, Biserta, sono animatissimi centri in cui gli uomini d’affari arrivano anche da Paesi lontani. I tunisini emigrano non solo come mano d’opera, ma anche come commercianti e professionisti: economisti, ingegneri, medici. Ne trovi negli Stati Uniti, in Canada, in Arabia Saudita, negli Emirati del golfo. Nelle fabbriche ma anche nelle università, negli ospedali.
Negli anni della guerra di indipendenza (‘54-’62) molti algerini, semplici esuli o dirigenti del Fronte di liberazione nazionale, hanno trovato ospitalità a Tunisi e dintorni, a Sidi Bou Said, La Marsa, Cartagine, Salambò. E lo stesso è avvenuto quando l’Algeria è stata investita negli anni Novanta dalla guerra civile. L’ospitalità tunisina non è venuta mai meno, anche se le forze di cui dispone per mantenere l’ordine interno sono limitate. Quando, di recente, ai confini orientali con la Libia sono arrivate decine di migliaia di profughi in fuga da un’altra guerra civile, quella che ha portato alla fine del regime di Gheddafi, la Tunisia ha aperto di nuovo le porte.
Gli avvenimenti nei Paesi vicini non hanno lasciato indifferenti i giovani tunisini. I fermenti islamici in Algeria e in Libia, come la mobilitazione tra gli arabi per combattere negli anni Ottanta gli invasori sovietici dell’Afghanistan, hanno spinto non pochi tunisini a impegnarsi in attività politiche ma anche in imprese armate. Non pochi hanno militato nelle file di Al Qaeda, quando il movimento di Bin Laden si batteva contro i russi e poi ci sono rimasti quando ha rivolto le armi e il terrorismo contro gli americani, e i regimi arabi giudicati loro complici. La Tunisia è un Paese pacifico che ha dato molti combattenti.
Yassine Abidi e Hatem Khachnaoui, i due terroristi uccisi durante l’assalto nel museo del Bardo, sono i figli o i nipoti ideologici dei primi combattenti di Al Qaeda. Il primo, Abidi, era cresciuto a Ibn Khaldun, quartiere popolare di Tunisi, mentre Khachnaoui era della regione tra Kasserine e la montagna di Chaambi, verso l’Algeria. Una zona dove i jihadisti agiscono a piccoli gruppi, di dieci o quindici combattenti, e attaccano i soldati e i poliziotti tunisini. La formazione principale, quella più attiva, è l’Ansar Al Sharia, la quale avrebbe deciso di concertare le sue azioni con quelle di Al Qaeda del Maghreb (Aqmi), che non è tanto un’affiliazione quanto un movimento che si ispira ad Al Qaeda. Ansar Al Sharia è l’animatore di tanti piccoli gruppi. Li organizza, li rifornisce in armi e denaro e li stimola ad agire. L’intelligence di Tunisi ha di recente intercettato messaggi in cui si esortava una cellula, Oqba Ibn Nafi, ad agire, vale a dire a compiere attentati. Il jihadismo salafista nel Maghreb è una nebulosa che nessuno ha ancora decifrato. Si calcola comunque che almeno 3mila giovani siano stati reclutati di recente per andare a combattere in Siria e in Iraq nelle file dello Stato islamico o delle fazioni concorrenti. Cinquecento sarebbero già rientrati. Il primo ministro, Habib Essid, sostiene di avere arrestato dal 6 febbraio 400 persone sospette di essere jihadisti. Tra gli arrestati alcuni avevano compiuto soggiorni in Libia, dove avrebbero avuto rapporti con gruppi islamisti armati, ed altri avevano invece compiuto soggiorni nelle regioni limitrofe all’Algeria. La polizia ha appena annunciato la morte di Ahmed Al Rouissi, un tunisino capo di una falange jihadista a Sirte, in Libia.
L’insurrezione del 2011 cacciò Ben Ali, il raìs tunisino, e dette il via alle altre primavere arabe, quella egiziana in particolare. Per Ennahda (Movimento), versione locale dei Fratelli musulmani, fu l’occasione per uscire dalla clandestinità. E in breve tempo, grazie alla sua organizzazione, assunse un ruolo dominante e poi vinse le elezioni. Di fatto scippò la rivoluzione alla forze libertarie e disorganizzate. A quell’epoca Ennahda intratteneva rapporti evidenti, anche se non ufficiali, con i salafiti di Ansar Al Sharia. Ne tollerava o addirittura copriva le violenze e gli eccessi politici. Via via, assumendo il potere e le inerenti responsabilità, ha interrotto la complicità e la polizia ha potuto intervenire contro chi infrangeva la legge in nome di Allah. Gli omicidi di due uomini politici di sinistra hanno accentuato il distacco tra islamisti disarmati e islamisti armati. La svolta ha portato col tempo a una laboriosa intesa tra Ennahda e Nidaa Tounes (Appello della Tunisia), quest’ultimo partito avendo vinto le seconde elezioni, in una posizione preminente. L’accordo laici-islamisti e il varo di un sistema democratico sono apparsi ai jihadisti di Ansar Al Sharia un imperdonabile tradimento. Non è azzardato interpretare il massacro del museo come una prima terribile punizione.
La minacciata democrazia tunisina ha radici lontane. La lunga strana dittatura di Habib Bourguiba, il padre della patria, ne ha gettato le basi. Bourguiba era al tempo stesso un raìs arabo, autoritario come voleva la tradizione, ma convinto che l’autoritarismo dovesse essere provvisorio, e finire a tappe, via via, fino a quando il popolo fosse pronto alla libertà. Nella lunga presidenza ha tentato tante formule: dal socialismo a un capitalismo mercantile. Dal suo comportamento affiorava spesso l’uomo che nelle prigioni francesi si era appassionato della storia dei suoi repressori, fino a pensare a tratti come un personaggio della Terza Repubblica, che conobbe anche il Fronte popolare. Dal pensiero non passava tuttavia all’azione, quando governava da despota la Repubblica tunisina. Rispettava però alcuni principi. Non aveva alcun debole per i militari. In un regime con deboli istituzioni l’esercito costituisce una forza troppo invadente e minacciosa. E dunque non creò mai un vero esercito. Si accontentò della polizia. Inoltre Bourguiba amava e rispettava le donne. E promosse leggi che garantivano loro libertà e diritti impensabili nel resto del mondo arabo. Teneva a freno i sindacati ma non li abolì mai del tutto e lasciò loro sempre un certo potere. La giovane e minacciata democrazia tunisina usufruisce ancora di quelle strane, incerte, ambigue idee di Habib Bourguiba, che amava la democrazia ma praticava la dittatura. Sulla sua scrivania c’erano sempre dei testi di storia della Rivoluzione francese.