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 2015  marzo 19 Giovedì calendario

Coloni e minaccia Iran, così Bibi Netanyahu è rinato. Ma ora nel mondo sarà più solo. Per superare lo scontento crescente, anche nel suo partito ha puntato tutto su sicurezza e populismo

Lo davano per spacciato. Come primo ministro ci ha stancato, sentivi dire un po’ dappertutto. Nel ristorante kosher la studentessa che fa la cameriera. Nel tassì l’autista “sabra” nato a Gerusalemme, ma di una famiglia originaria di Bassora in Iraq. Strano, un sefardita, un ebreo orientale, dovrebbe essere un elettore di “Bibi”. E invece non lo ama. Non l’ama neppure il cronista nella redazione di un quotidiano moderato come Yediot Ahronot, anzi lo detesta. Senza parlare dell’amico, appesantito dagli anni, che ritrovo in pensione nella German Colony dopo averlo conosciuto dinamico attivista del Likud. Proprio del partito di “Bibi”. Anche noi siamo stufi di lui, mi confessa. E i due figli, uno ingegnere l’altro avvocato, si associano. La lista degli scontenti era insomma lunga, e avvalorava i toni disincantati dei giornali nei confronti del primo ministro in carica da un numero d’anni inferiore soltanto a quello di Ben Gurion, il fondatore dello Stato. Vale a dire da troppi anni. Poi, come in un’allucinazione, martedi notte, Benjamin Netanyahu è apparso trionfante nella sede del suo partito, con la moglie Rosa accanto. Battuto? Spacciato? Estromesso? È l’una quando comincia a parlare. La coppia Netanyahu sprizza energia, dopo un giorno decisivo, pesante, trascorso nell’attesa del risultato di un voto incerto, che poteva segnare una svolta decisiva, la fine di una grande carriera politica o quasi. La sconfitta annunciata dalle indagini d’opinione non c’è stata. Le proiezioni annunciano che dalle urne dovrebbe uscire un pareggio. In Israele invece delle percentuali dei voti si danno i risultati in seggi parlamentari: un 27 a 27 non è un successo strepitoso: ma una bella rimonta rispetto ai sondaggi che aggiudicavano al capo del Likud quattro seggi in meno della coppia Herzog— Livni, alla testa dell’avversaria Unione sionista, la coalizione di centro sinistra. Chi sperava nel tramonto di Benjamin Netanyahu si addormenta un po’ deluso. Inquieto. Gli scontenti dovrebbero essere in tanti, vista l’atmosfera di Gerusalemme. Invece le lunghe ovazioni dedicate dai militanti del Likud a Rosa e a Benjamin, e i sorrisi smaglianti con quali Rosa e Benjamin le accolgono, fanno pensare che i due conoscano la sorpresa annidata nello scrutinio dal quale usciranno i veri risultati soltanto nel primo mattino. Dichiarano la vittoria. Avendo dimestichezza con la mappa elettorale del paese è più facile prevedere dalle proiezioni la conclusione del voto. Forse hanno ragione quando si dicono vincitori in anticipo. Questo vale anche per quelli dell’Unione sionista che, invece, accogliendo la notizia del pareggio hanno un’aria bastonata. Anche loro inneggiano tuttavia al successo. Due vincitori in un solo voto. Due governi e una sola elezione. Il risveglio è brutale per gli uni ed euforico per gli altri. Nella notte il pareggio è sparito. Lo spoglio delle schede dà una chiara vittoria a Benjamin Netanyahu: 30 seggi contro 24 in favore del Likud. Le nostre corrispondenze scritte la sera erano l’effimera verità di un momento che si è dissolto. Benjamin Netanyahu avrà un quarto mandato come primo ministro. Nello spazio di poche ore sono sparite le speranze di una nuova dinamica nella politica mediorientale, e quindi una svolta nell’immobile problema israelo—palestinese. Dopo quasi cinquant’anni (che conto dalla guerra del 1967) di occasioni perdute, è sparito il miraggio di due Stati, il palestinese accanto all’israeliano garantito nella sua sicurezza. È tragicamente sfuggito di mano come un pallone. Si è perduto nel vuoto spinto da un voto democratico. L’occupazione continua e del processo di pace non si vede più traccia. Questo è il prezzo del successo di Benjamin Netanyahu. Riacciuffato in extremis con l’energia e l’abilità riservate a pochi uomini politici. Nel suo ufficio Bibi tiene un ritratto di Winston Churchill, pensando di poterne trarre ispirazione, ed anche po’ di nobiltà. Ne avrebbe bisogno se volesse dare un senso e po’ di dignità al populismo che gli consente di riemergere ogni volta da crisi per altri politicamente fatali. Fino a qualche giorno prima della notte che ho descritto egli è apparso spesso ai collaboratori in preda al panico. I pronostici gli erano ostili. Le indiscrezioni sulle spese eccessive nella residenza di primo ministro erano oggetto di indagini e di indiscrezioni giornalistiche; la sfida lanciata a Barack Obama al Congresso di Washington sul problema nucleare iraniano, presentato come una minaccia diretta per Israele, non aveva avuto grande successo e aveva ferito la preziosa alleanza con la Casa Bianca; gli stessi dirigenti del suo partito gli rimproveravano di avere condotto una cattiva campagna elettorale. Ma lui conosce il suo elettorato. Gli stanchi del suo lungo potere erano soprattutto gente di città, delusi della politica che dopo l’ultima crisi di Gaza non dava più stabilità al paese nel Medio Oriente in tempesta. Molti erano askenaziti, ebrei originari del centro e nord Europa, non particolarmente amati dalle masse sefardite, originarie del Maghreb o del Medio Oriente, da sempre irritate dal ruolo privilegiato che loro, gli askenaziti, hanno nella politica e nella cultura. Bisognava tuttavia estirpare o attenuare lo scontento delle classi meno abbienti, anch’esse per lo più sefardite, per il rincaro dei prezzi, in particolare degli affitti, e per la forte sperequazione dei redditi, in una situazione economica tutt’altro che sfavorevole, con una crescita invidiabile in Europa e una bassa disoccupazione. Per questo lo scontento serpeggiava anche nel tradizionale elettorato del Likud. Benjamin Netanyahu l’ha strappato per il tempo necessario del voto da quelle preoccupazioni. L’ha isterizzato gettando nei comizi argomenti profondi, sensibili, non del tutto irreali, riguardanti la sicurezza. Ha colpito il ventre degli elettori distratti o scontenti. Li ha mobilitati. Ha sfoderato problemi che non aveva mai affrontato con tanta schiettezza. Uno Stato palestinese? Ne aveva accennato, dichiarandolo necessario, nel 2009. Alla vigilia del voto incerto l’ha escluso con fermezza. Quando ha mentito? Sei anni fa o sei giorni fa quando ha sentenziato che non ci sarà mai uno Stato palestinese? Un verdetto che blocca ancor più il paralizzato processo di pace. Se si esclude uno Stato binazionale, ritenuto irrealizzabile anche per la rapidità della demografia palestinese, e se si scarta l’idea di due Stati separati, resta soltanto la gestione normale delle crisi. Vale a dire l’occupazione dei territori palestinesi. Questo significa anche isolarsi dal resto del mondo, che nella sua grande maggioranza, Stati Uniti compresi, chiede che quel diritto, in larga parte già concesso dalle Nazioni Unite, sia riconosciuto al popolo palestinese. Nell’offensiva promossa nelle ultime ore per recuperare i voti che gli stavano sfuggendo, Netanyahu ha accusato i suoi avversari di volere dividere Gerusalemme con i palestinesi. E di voler smantellare gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. In poche ore ha riconquistato molti elettori (in larga parte sefarditi e russi) presentando le sue decisioni come irrinunciabili per garantire la sicurezza di Israele. E questa sicurezza assomiglierà sempre più a quella voluta dall’estrema destra con la quale si deve alleare per avere la maggioranza in Parlamento. Un’estrema destra che vorrebbe annettere via via parte della Palestina già presidiata da 350 mila coloni. La procedura concede all’incaricato quattro settimane più due in caso di necessità per formare il nuovo governo. Unendo i seggi del suo partito a quelli dei partiti estremisti (di Bennett e di Liebermann), Netanyahu ne avrebbe a disposizione 44. I restanti dovrebbero darglieli Moshe Kahlon, abile ministro dissidente destinato a rientrare nei ranghi come ministro delle finzanze. Kahlon dispone di dieci preziosi seggi da aggiungere a quelli dei partiti religiosi ortodossi: lo Shass (safardita) e l’Ebraismo unificato della Torah (askenazita). Questa è la coalizione che Netanyahu cercherà di realizzare. Se ci riuscirà avrà una maggioranza di 67 seggi sui 120 che conta la Knesset. Il prezzo di questo governo, costruito con un abile populismo democratico, rischia di essere molto alto. L’autorità palestinese presenterà al Tribunale penale internazionale una denuncia contro l’occupazione della Cisgiordania. E reclamerà i diritti di dogana dei suoi prodotti gestiti da Israele e non corrisposti da due mesi. Netanyahu dovrà inoltre affrontare un isolamento internazionale, dopo la sfida lanciata al presidente americano e le richieste inattese di riprendere i negoziati di pace avanzati dalle democrazie occidentali. Lo Stato ebraico dovrà usare l’ampio credito che la Storia gli riconosce.