La Stampa, 18 marzo 2015
Fredrik Sjöberg, l’entomologo svedese che ha imparato l’arte di studiare gli insetti e ora sussurra alle mosche
Con quel suo sguardo blu intelligente che buca un volto eccentrico e gentile, diresti che un tipo così non fa male a una mosca. Ma loro, gli insetti, non sarebbero d’accordo. Perché anche se li ama, li osserva, li pedina, ne cattura e uccide un bel po’. Fredrik Sjöberg, svedese, è infatti supremo specialista mondiale di sirfidi, la vasta famiglia dei ditteri (mosche, in parole povere). Ha lavorato al Teatro Reale di Stoccolma, ha viaggiato il mondo, scrive di cultura e di cose futili sui giornali. Col passare degli anni ha però capito che studiare gli insetti non è solo una fredda missione scientifica bensì un’arte (ha esposto la sua collezione alla Biennale di Venezia, dove non ha sfigurato), un uzzolo, uno stile di vita che aguzza l’ingegno, il silenzio, la pazienza.
Così, piegando lo scetticismo del suo editore, ha scritto un libro che è diventato bestseller nel mondo, capace nel miracolo di rendere le mosche interessanti anche per chi le ha sempre considerate inutili, moleste, persino un po’ schifose. Con uno stile frizzante, che fonde rigore scientifico e umorismo, divaga su letteratura (da Chatwin a Shelley), avventurosi entomologi e tante verità inaspettate che si scoprono sull’esistenza umana osservando gli insetti. Il titolo è L’arte di collezionare mosche, tradotto con sicura scorrevolezza da Fulvio Ferrari per Iperborea (pp. 224, € 16).
Il signore col retino
Mosche domestiche, predatrici, cavalline, della carne, della frutta, empididi, calliforidi, efidridi, ippoboscidi... il multiforme ordine dei ditteri conta centinaia di migliaia di specie. Per vincere la vertigine da infinito, Sjöberg s’è limitato ai sirfidi (che contano pur sempre cinquemila specie, «e sicuramente ce ne sono migliaia non ancora scoperte, dio sa dove»), e poi ai 15 chilometri quadrati dell’isola di Runmarö, a Est di Stoccolma, dove ha vissuto per anni con moglie e figli senza acqua corrente, in mezzo alla natura, scoprendo 202 specie, «un trionfo, credetemi».
Sulla stessa isola visse anche Strindberg, macerandosi di dolore per il divorzio sulle rive di uno stagno nero. Sjöberg è invece lieto di scorrazzare senz’altra compagnia che barche scrostate, polloni di ontano, fiori di mazza d’oro. Quando d’estate il luogo si riempie di turisti, e i loro figlioletti chiedono impertinenti «che fa quel signore col retino?», lui risponde serafico «studio mosche». E perché? «Certo, si potrebbe citare una quantità di ottime ragioni scientifiche». Perché i sirfidi permettono di capire il funzionamento della natura, i mutamenti climatici, le modificazioni dell’uomo sull’ambiente; la dicono lunga sugli acquitrini, sull’impollinazione, persino sui cadaveri. Ma rispondere così sensatamente sarebbe una menzogna. Meglio ricorrere allo scrittore Augusto Monterroso citato nell’esergo: «Ci sono tre argomenti: l’amore, la morte e le mosche. Da quando l’uomo esiste questo sentimento, questa paura e questa presenza l’hanno accompagnato sempre. Altri si occupino dei primi due. Io mi occupo delle mosche, che sono migliori degli esseri umani, con l’eccezione delle donne».
Uno psicoanalista freudiano potrebbe chiosare che quest’attività, come ogni collezionismo, ha a che fare con la fase anale. Ma Sjöberg sorride. Chissenefrega di quanto accadde nell’infanzia con le madri severe. Collezionare mosche è un piacere, una gioia equivoca, persino un esercizio zen alla lentezza. Le prede, dopo ore, giorni di agguati, finiscono crocifisse nel torace e nelle alucce con spilli di 40 mm d’acciaio (tanto per confermare che il nostro entomologo, alle mosche, un po’ di male lo fa): un tempo erano austriaci, ora van benissimo quelli cechi, più economici, laccati in nero.
La caccia migliore
Sjöberg ovviamente ama la natura. Ma se qualcuno lo pensasse come un eremita del verde sbaglierebbe. Lui è (molto) ecologicamente scorretto. «Provate ad andare nella foresta pluviale che scompare a vista d’occhio – dice – e sognerete di asfaltarla, distrutti dalle zanzare, dalla dissenteria, dal caldo infernale, dai serpenti, dalla pioggia che ti fa affondare nel fango». Forse c’è una sfumatura di compiaciuto bastiancotrarismo. In realtà, spiega, per chi studia mosche, la natura sfregiata dall’uomo è più interessante di un luogo selvaggio. La caccia migliore avviene nei cimiteri, ai margini delle strade, lungo le linee elettriche nelle foreste, nelle discariche, dove le mosche «sguazzano nella terra di confine tra natura e cultura».
L’infinito in una teca
Su quella stessa isola abitò anche René Malaise (1892-1978), un personaggio straordinario che varrebbe un romanzo di London, e che Sjöberg racconta estesamente. Noto per aver inventato la migliore trappola cattura-insetti, visse anni solitario tra le nevi della Kamchatka, poi, nel ’23 assistette al più catastrofico terremoto giapponese. E dato che vide la terra scomparire sotto il mare, passò la vecchiaia a dimostrare che Atlantide era esistita, nonostante la comunità scientifica lo sbertucciasse.
Grazie alla sua abilità nell’osservare i piccoli dettagli accumulò una magnifica collezione d’arte – perché in Svezia, durante la guerra, per motivi anche tristi, circolarono tantissimi capolavori – e scovò nei mercatini delle pulci due Rembrandt, un Franz Hals, un Jan Polack. Quando morì lasciò il tesoro all’università, ma cinque dipinti furono rubati e nessuno si occupò della faccenda. Finché Sjöberg, con il suo fiuto da cacciatore di mosche non ha rintracciato uno dei Rembrandt che stava per essere venduto all’asta. Anche questo si racconta nel libro. Perché il volo delle mosche è, come la vita, retto dal caso, turbato da mille interferenze, imprevedibile. Sai dove parti. mai quel che trovi. L’importante è continuare a cercare. E collezionare. Per illudersi che l’infinito possa stare in una scatola di vetro.