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 2015  marzo 18 Mercoledì calendario

King contro Kubrick per Shining: litigi tra maestri per il capolavoro horror. Il re del brivido non gradì il film. Un libro racconta tutti i retroscena

I rapporti tra Stanley Kubrick e gli scrittori dai quali ha sempre attinto i soggetti dei suoi film sembrano una variante della relazioni sadomaso, dove il mitico regista era il dominatore e gli autori – e i loro libri – i sottomessi. In realtà è sempre andata così nel cinema: Gadda andava sul set de Un maledetto imbroglio di Germi, tratto dal suo Pasticciaccio, e suggeriva di chiamare «Carpedoni» un personaggio perché l’attore assomigliava a una carpa. «Andassero a fare in culo questi intellettuali cretini», sbottava Germi chiedendo di allontanare l’illustre letterato. Il libro di Alessandro Gnocchi, I segreti di Shining. King contro Kubrick (Barney, pp. 176, euro 13,50) rievoca uno degli adattamenti cinematografici più originali e complessi, il cui giudizio nel tempo continua a mutare: all’uscita del film di Kubrick, nel 1980, il romanzo di King sembrò completamente annichilito dalla forza visionaria e da quella straordinaria, gelida bidimensionalità che era il segno di fabbrica del regista.
Non per caso, racconta Gnocchi, gli anni seguenti al grande successo del film – che, partito con qualche indugio come spesso i film di Kubrick, finì per incassare trenta milioni di dollari – coincise con la discesa dello scrittore in un suo privato abisso: alcolismo, cocaina, fino all’aut aut della famiglia: se non si fosse disintossicato, se ne sarebbero andati e l’avrebbero abbandonato all’autodistruzione. E King: «Lasciatemi due settimane per pensarci». E poiché King è ancora tra noi e operativo, furono due settimane di saggezza. Poi, a cominciare dalla metà degli anni Novanta, con il crescente riconoscimento della qualità puramente letteraria del lavoro di King, fino all’oltraggiosa – per l’establishment – medaglia del National Book Award nel 2003 (leggetevi nel libro di Gnocchi il discorsetto risentito di un critico assai stimato, di cui sospettavamo la mediocrità catalogale, l’inventore del Canone occidentale Harold Bloom citato a destra e a manca fino a qualche tempo fa, per comprendere quanto l’erudizione possa andare di conserva con la cretineria) il romanzo ha acquistato una sua pari dignità, mentre del film di Kubrick si sono scovate impensate debolezze. L’interesse di questo «King contro Kubrick» sta tutta nel fatto che Gnocchi, scrivendo le due storie parallele delle opere, scrive in realtà le vite parallele dei loro creatori. «Kubrick pensa troppo e sente poco», dice King in un’intervista a Playboy nell’83, sovvertendo l’abituale schema dello scrittore intellettuale e del regista pragmatico.
Ma le differenze non sono di sensibilità, bensì antropologiche, filosofiche, e religiose. Per King è importante che «i personaggi abbiano spessore», e questo vuol dire fornirli di una memoria, «perché il passato conta». Quello che sono, scrittori frustrati e violenti, padri alcolizzati e perseguitati come il Jack Torrance di Shining, dipende da quello che hanno vissuto nel passato: «I veri fantasmi della nostra vita non sono forse i ricordi? Non ci spingono forse di tanto in tanto tutti quanti a parole e azioni di cui ci rammarichiamo?». Questa idea del passato come causa dell’agire dei personaggi è per Kubrick pura spazzatura psicologistica. Lo spettatore non ha e non deve avere alcuna particolare penetrazione nel retroterra esistenziale dei protagonisti sullo schermo: tutto assume un rilievo immediato e, di conseguenza, irrazionale, ineffabile. Un irrazionalismo che per King, che ha lottato con i demoni del caos interiore, con lo spettro di essere un giovane padre povero con tre figli a carico, che ha resistito alle seduzioni escapiste del pop culture anni ’70 (sì, l’autore di bestseller commerciali dichiara: «Negli anni Settanta allevare bambini era molto più appagante della cultura pop. Così non conoscevo KC and the Sunshine Band, ma conoscevo i miei ragazzini dentro e fuori») non doveva e non poteva averla vinta.
La spaccatura, che sembra solo psicologica, è in realtà morale, religiosa. Kubrick era un ebreo del Bronx, non aveva particolare dimestichezza con l’idea cristiana della redenzione, dell’happy ending – dispositivo clamorosamente assente da tutti i suoi film e che probabilmente gli costò l’Oscar – mentre nel romanzo la redenzione di Jack c’è, quando mette in salvo il figlioletto Danny prima che la caldaia dell’Overlook Hotel, questa dépendance dell’Inferno, esploda in un rogo appunto purificatore. Nel film Danny si salva, ma dal padre, non grazie al padre. Non è una vittoria del bene, è una fuga dal male.