La Stampa, 18 marzo 2015
Gli effetti economici del divorzio. Bene non dover più aspettare tre anni, ma bisogna ricordarsi che se il matrimonio si scioglie il vincolo assistenziale che lega i coniugi resta finché morte non li separi
Il Senato approva oggi il disegno di legge sul divorzio breve: basterà un anno di separazione, ridotti a sei mesi se la separazione è consensuale.
La norma che era stata approvata in Commissione che consentiva addirittura il divorzio immediato per i coniugi senza figli è stata invece stralciata. Il disegno di legge dovrà tornare alla Camera per un’ultima lettura. Quest’ultimo passaggio parlamentare dovrebbe però essere rapido. È quindi finalmente a portata di mano un risultato che era stato irraggiungibile durante le precedenti legislature, quando analoghi disegni di legge si erano incagliati sugli scogli di veti incrociati e pregiudizi ideologici. Siamo quindi in dirittura d’arrivo per avere una legge sul divorzio coerente con la concezione del matrimonio ormai diffusa nella nostra società e allineata con gli standard europei?
Per quanto riguarda i presupposti del divorzio la risposta è senz’altro affermativa. Non serve costringere due persone che non vivono più assieme ad attendere tre anni prima di sciogliere il loro matrimonio. Ma la nostra legge rimane assolutamente inadeguata per quanto riguarda un differente profilo: gli effetti economici del divorzio. Il coniuge più debole ha diritto, dopo il divorzio, ad un assegno assistenziale. Un diritto creato quasi mezzo secolo fa: il matrimonio si scioglie ma il vincolo assistenziale che lega i coniugi sopravvive per tutta la vita. È una regola che non ha più alcun senso.
Se si compie lo sforzo di leggere il dibattito che si è svolto in Senato si ha la percezione immediata della distanza fra il Parlamento e la società. In Aula si è detto fino alla noia che il matrimonio è una istituzione che lo Stato deve difendere. Eppure sempre meno giovani sono disposti a sottoscrivere questa affermazione. Non si sposano più: non vedono la ragione per farlo. Non ritengono che il matrimonio sia un insieme di garanzie, di sicurezze, di diritti e di doveri reciproci per cui valga la pena di impegnarsi. E non si può dar loro torto: attualmente il matrimonio, in caso di crisi del rapporto, non dà alcuna garanzia di una equa soluzione dei problemi. La legge garantisce assistenza, ma l’ex marito che guadagna più della moglie (sono ancora molto rari i casi in cui accade l’inverso) non capisce per quale motivo deve mantenere ad una persona con cui ha rotto ogni rapporto. E la parte più debole (ancora troppo spesso la moglie) non cerca assistenza, non vuole la carità di un assegno mensile spesso modesto e del tutto insufficiente a garantire il tenore di vita matrimoniale. Vuole invece un equo compenso per i sacrifici fatti durante il matrimonio a favore della famiglia e dei figli.
Ecco allora una riforma urgente: dopo il divorzio, un coniuge deve ricevere dall’altro una somma compensativa dei sacrifici fatti durante il matrimonio, di tutti i sacrifici, ma solo dei sacrifici. Quindi i criteri per determinare l’entità della compensazione dovrebbero essere la durata del matrimonio e l’entità delle rinunce fatte. Possibilmente questa somma dovrà essere versata in un’unica soluzione per evitare il formarsi di rendite periodiche. Solo così, nel contesto del divorzio, entrambi i coniugi otterranno adeguata tutela.