Libero, 18 marzo 2015
A casa di Massimiliano Latorre, il marò convalescente che soffre ancora per l’ictus ma giura: «Tornerò in India se mi verrà chiesto». Il suo permesso per malattia scade il 12 aprile
«Come Berlino», riporta una scritta sul muraglione che circonda l’Arsenale di Taranto. Hanno ragione. Perché è difficile poter raccontare qualcosa quando ci sono pareti a impedirne la vista. Su quello stesso muro campeggia un’altra scritta: «Riportate i marò avvolti nel Tricolore». Qualcuno ha provato alla meglio a cancellarla, ma si legge ancora. Come possono una città, un Comune, la stessa Marina militare, non essersi accorti dell’irriverenza e della vigliaccheria di certa gente? È per questo che certi muri vanno abbattuti. Prima di tutto quello del silenzio. Massimiliano Latorre, in convalescenza nella sua città in seguito all’ictus che lo ha colpito, e i suoi familiari non possono abbattere da soli quel muro, non possono parlare con i giornalisti. Affidano il loro silenzioso grido di rabbia a punti interrogativi e puntini di sospensione postati su Facebook o Twitter. Neanche a noi è dato di sapere dettagli sulla vicenda, ma qualcosa ve la possiamo dire eccome, dopo avergli fatto visita lo scorso weekend. Possiamo dirvi quello che i nostri due marò, da oltre tre anni ingiustamente e illegalmente trattenuti senza alcun capo di imputazione, stanno subendo.
Quando scendi dal treno ti accorgi che Taranto non è cambiata. Dietro il fumo dell’Ilva, davanti il mare. Fuori dalla stazione ad accogliermi c’è Paola Moschetti, la compagna di Massimiliano, una donna che ha fatto della forza e della pazienza due armi di battaglia. Un’amica irrinunciabile, che regala altruismo privandosi del tempo che non ha. Una donna che vive attaccata al telefono, tra chiamate di giornalisti, articoli da leggere e risposte da dare, con una tenacia fuori dal comune. Quando la vedi non puoi non abbracciarla, ma non solo perché lei e Massimiliano sono un pezzo di cuore di quest’Italia che da oltre tre anni aspetta che siano riportati a casa. Partiamo, ascoltando una musica che Paola mette spesso in auto: «Ho ancora la forza», di Luciano Ligabue. Poco dopo poco raggiungiamo l’abitazione di Massimiliano.
uando mi vede il fuciliere mi abbraccia forte, perché i gesti valgono più delle parole. Lo si vede subito che ha addosso i segni dell’ictus. Mi distrae per un attimo un guaito e in un angolo scorgo un cagnolino piccolissimo. Ha appena due mesi ed è la compagnia di Massimiliano. Lui lo prende in braccio, lo coccola, lo abbraccia. Quel cucciolo lo aiuta ad andare avanti. Perché quando si vive un incubo come quello che sono costretti a sopportare i due militari non si può far altro che tentare di sopravvivere e farsi forza.
«Questo è per te», dico a Massimiliano, porgendogli il mio regalo. È un libro, il Manuale del guerriero della luce, di Paulo Coelho, un volumetto che invita a non arrendersi mai. Mi fa capire che per lui sarà difficile leggerlo, nonostante gli occhiali che porta. L’ictus che lo ha colpito gli ha procurato danni che si porterà dietro per tutta la vita. Molti hanno parlato di «lieve ischemia», ma vi assicuriamo che i risultati di quell’ictus sono ben visibili su Massimiliano Latorre.
Paola, compagna fedele, trova la forza per sorreggere la sua metà di cuore con una tenacia difficile da spiegare. Lo guarda amorevolmente e poi gli fa una carezza quando, d’improvviso, lui si addormenta sul divano, mentre io sorseggio una bibita. E si capisce subito che, nonostante la forza e la voglia di combattere, a volte non puoi far altro che cedere sotto il peso di una stanchezza che è prima di tutto interna.
Paola e Massimiliano difficilmente escono insieme. Perché sarebbe insopportabile per chiunque andare anche solo al supermercato a fare la spesa e metterci ogni volta 4 ore perché ogni singola persona ti ferma. Non possono andare al ristorante, perché la storia è la stessa. Non hanno più quella vita che si meriterebbero, perché l’India, la politica italiana e tanta altra gente gliel’hanno tolta. Raramente ho visto due persone così innamorate. Si guardano complici negli occhi, si abbracciano, mentre Paola prepara la pizza con la nduja e quella bianca col rosmarino per la cena. Massimiliano la mangia assaporando il gusto dei cibi di casa. Quelli buoni di una Puglia che ti ricorda le orecchiette con le cime di rapa, come quelle che fa la mamma di Paola, da cui pranziamo il giorno successivo. Una famiglia italiana, di quelle vere, semplici e sincere, che sa ancora voler bene e avere il senso dell’ospitalità nonostante ci sia qualcosa di grande a cui pensare, qualcosa che fa soffrire tremendamente. Due chiacchiere con gli amici che non mancano mai di andarli a trovare, un bacio ai figli, una chiamata ai familiari, un sorriso che appare nonostante i pensieri e il giorno è già finito. Massimiliano e Paola restano in casa, a guardare un po’ di tv, a cercare di vivere una vita normale, da persone normali, anche se quel 12 aprile, data in cui scadrà il permesso che la Corte suprema indiana ha concesso a Latorre per la convalescenza, si sta avvicinando.
Qualora gli fosse imposto di rientrare, Massimiliano prenderà quel volo per l’India, perché è prima di tutto un uomo d’onore, quindi un italiano e poi un servitore della Patria, ma soprattutto perché al di là di mari e monti c’è Salvatore che aspetta come lui da tre anni e un mese che su questa vicenda possa essere calato il sipario.
«Vania, la moglie di Salvatore, non la sento da un po’», mi ha detto qualche giorno fa un commerciante di Bari, «anche lei non parla. Sono tutti trincerati dietro al silenzio. Conosco anche il padre di Salvatore e mi ha raccontato che il morale del figlio è sotto ai piedi, che lui è molto preoccupato per questo, che i due nipoti hanno problemi di salute. Ma come si fa a tenerlo ancora lì? Ma il governo dove è finito?». Il premier Renzi e i suoi ministri si sono posizionati anche loro dietro a un muro fatto di parole non dette. Ma a casa di Latorre, a guardare negli occhi quei bambini che vivono nell’angoscia costante che il padre debba partire di nuovo non ci sono stati, così come non sono stati a guardare gli occhi dei figli di Salvatore Girone. Noi, in quelli di Massimiliano, abbiamo scorto la sofferenza e il pensiero di doversi separare di nuovo da Paola, dai suoi quattro figli e dalla sua famiglia. Lo abbiamo lasciato con una promessa, quella che non lo abbandoneremo e con lui non abbandoneremo Salvatore e i suoi affetti. A lui e ai suoi cari la forza non manca. A noi neanche. Di certo non quella per continuare a dire «basta, marò liberi».