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 2015  marzo 18 Mercoledì calendario

Al Quadraro con Ascanio Celestini. Un giro tra la gente di periferia che si trascina fra il bar e le strade, fra uno shottino di vodka e uno scippo, in cerca di un senso che non c’è più

Nei giorni in cui Trastevere si ripuliva per ospitare il set del nuovo James Bond, e in attesa di veder sbarcare a Cinecittà la poderosa macchina hollywoodiana del remake di Ben Hur, alle porte della capitale, al Quadraro, si è girato con quattro soldi messi a disposizione dai fratelli Dardenne un nuovo, sorprendente film di Ascanio Celestini. Si chiama Viva la sposa. La sposa è una bellissima e biondissima attrice svedese, involontaria (?) citazione della Ekberg felliniana, una diva americana (nel film) in viaggio di nozze per l’Italia, un sogno di una vita lontana e impossibile, riflessa dai televisori davanti agli sguardi dei personaggi di Celestini, gente di periferia che si trascina fra il bar e le strade, fra uno «shottino» di vodka e uno scippo, in cerca di un senso che non c’è più. Il film che ha per protagonisti Ascanio, Alba Rohrwacher, Veronica Cruciani e Salvatore Striano, sarà forse pronto per Cannes, ma più probabilmente per Venezia.
Questo è in fondo il vero esordio al cinema, dopo Pecora nera che nasceva dal lavoro teatrale. Com’è venuta l’idea di scrivere un soggetto per un film?
«A un baracchino dove passo qualche volta la sera o anche a notte fonda, guardo la gente, ascolto le loro storie. Faccio piccoli spettacoli, in genere da solo, e invece qui mi serviva un film per raccontarle insieme».
Il Quadraro è una delle periferie romane amate, indagate e filmate da Pier Paolo Pasolini. Alla vigilia di quella mutazione antropologica che Pasolini vedeva alle porte e che poi è arrivata dagli anni Ottanta, sconvolgendo la società italiana. È un modo per tornare sul luogo del delitto?
«Per la verità il Quadraro è stato spesso un set. Ci hanno girato perfino Maciste. E qui è stato ambientato un pezzo del Borghese piccolo piccolo di Monicelli e Cerami. Ma certo il riferimento a Pasolini è immediato. Le storie di vita che racconto sono simili in apparenza a quelle pasoliniane. Nicola è uno che beve, fingendo sempre di voler smettere, Anna è una prostituta che non sa chi sia il padre di suo figlio, Salvatore è il figlio di Anna e cerca di imparare le piccole truffe da Sasà, che un giorno finirà male. Soltanto che dietro queste e altre storie non c’è più il mondo e il popolo e i sentimenti raccontati da Pasolini. C’è il caso».
Pasolini vedeva il sottoproletariato romano come una riserva indiana non toccata dalla corruzione consumistica. Guardando i suoi personaggi si direbbe che invece l’omologazione si è compiuta fino in fondo.
«Sì e con poche resistenze. Ho scelto un quartiere popolare ma non misero. Ai tempi di Mamma Roma il Quadraro stesso incarnava una speranza, le case più belle rispetto alle baracche. Oggi quella speranza che avevano i sottoproletari pasoliniani è svanita. Non sono disperati, perché a volte il contrario della speranza non è la disperazione, ma il fatalismo».
Cerami diceva che oggi le vere tragedie si consumano nei caseggiati popolari e non a corte. È questo il senso?
«Sì, ma si tratta di non tragedie. Vede, nell’epica antica gli uomini erano marionette nelle mani degli dei e quando si ribellavano, come Ulisse, gliene capitavano di tutti i colori. Poi con la tragedia greca gli dei non intervengono più, ma incombe il destino. Edipo è una brava persona, ma è schiavo di un destino. Oggi non solo gli dei non intervengono, ma non esistono e non c’è neppure un destino. Si può rubare o avere successo alla tv, uccidere il padre e andare a letto con la madre, ma tutto è per caso».
I suoi personaggi sono meno poveri dei ragazzi di vita ma ancora più emarginati, eppure non immaginano una ribellione. È come se le lotta di classe di un tempo si fosse persa per sempre. Sono fatalisti. Ma lei non lo è, ha partecipato a molte battaglie in questi anni.
«Sì, lo sguardo su queste vite non è fatalista. Ma anche la mia esperienza personale mi dice che ci si ribella soltanto in casi estremi, quando al posto del fatalismo arriva la disperazione vera. In Grecia, per esempio, con la gente ridotta alla fame. In Val di Susa, quando ti sfondano la porta di casa con una ferrovia che non serve a nessuno. In un call center dove ti schiavizzano per 500 euro al mese. Ma finché la politica e l’economia non arrivano dentro la tua vita e ti tolgono l’ultimo diritto, funziona l’illusione di potersi difendere nel privato, annullando ogni dimensione di solidarietà. E l’unica finta opposizione a questa politica oligarchica diventa il populismo becero, che è ancora peggiore. Guardi che cosa accade con l’immigrazione. Un popolo di emigranti storici, come gli italiani, diventa preda del delirio xenofobo e delle ridicole soluzioni “semplici”. Come se fosse davvero possibile fermare gli sbarchi di milioni di persone in fuga da guerre e carestie, scegliendo fra una morte sicura e una probabile».
Nel discorso alla nazione a teatro lei alla fine finge che Gramsci adotti un linguaggio da populisti. Si capisce la sua ironia?
«Di rado. Dico cose becere, volgari e molti si complimentano. Mi dicono: bravo, se tornasse Gramsci la penserebbe così. Però le cose stanno cambiando, c’è tanta gente che spegne i talk show e comincia a riflettere davvero su quanto sta cambiando in peggio la propria vita».