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 2015  marzo 18 Mercoledì calendario

Brera si racconta con Brera nell’antologia di Gianni Mura: «Ho riproposto gli scritti senza il minimo ritocco. Ho scelto quelli che mi piacevano di più. Ho poi deciso di non ordinare le scelte per argomenti né cronologicamente e quindi mi scuso se il lettore si sentirà sballottato fra uno storione e il Tourmalet. La colpa è mia e il merito è di Brera»

Curare antologie non è il mio forte, sono abituato a scrivere cose che durano al massimo un giorno. Nel caso di Brera, so che i suoi scritti dureranno ma mi pareva, in qualche modo, arbitrario stabilire che cosa proporre e che cosa no. E, ancora: scegliere con la testa o col cuore? E, una volta fatte le scelte, come ordinarle?
Devo spiegazioni al lettore. Mi sento troppo breriano per indossare i panni di chi sta sopra le parti.
Qualcuno dice che sono l’erede di Brera e una volta di più io dico che non è vero. Per onestà ammetto che in un periodo della mia vita ho pensato che potevo essere come Brera, anche meglio, perché no? Avevo diciannove anni, ero passato direttamente dai banchi del liceo Manzoni a una piccola scrivania della Gazzetta, in via Galilei. Ero già un lettore di Brera ( Giorno e Guerino ) e, a dirla tutta, l’idea che esistesse Gianni Brera mi faceva accettare la realtà, per me agli inizi poco piacevole, di lavorare in un quotidiano sportivo (io, destinato a fioriti elzeviri). Dopo un po’ di gavetta, il direttore decise che era tempo di vedere come me la cavavo a scrivere. Andassi a Milanello, c’era il brasiliano Germano fermo per un infortunio, raccogliessi il suo sfogo.
Sessanta righe, le mie prime sessanta righe. Ci misi dentro struggle for life e se capiss, crapottone e Weltanschauung, pirlare e saudade. Consegnai l’articolo fierissimo, dopo dieci minuti mi mandò a chiamare il direttore, Gualtiero Zanetti. Teneva i due fogli di carta rosa in punta di dita. Mi disse che potevo arrotolarli e ficcarmeli proprio lì, che Brera dovevo scordarmelo ed ero fermamente pregato di riscrivere il pezzo in un italiano normale. Era davvero un brutto pezzo e finì nel cestino di Zanetti, cui sono molto grato. In cinquant’anni non ho più riscritto un pezzo, una lezione era bastata.
Scordarmi Brera quanto a scrivere sì, ma il resto no. Siamo diventati amici, gli devo molto per i consigli, molto di più per l’esempio. Da dieci anni lavoravamo nello stesso giornale e quindi raramente sullo stesso servizio. Ci vedevamo di più prima. L’ho sentito discutere con un tassista di Monaco e accusare i bavaresi di aver copiato la stazione ferroviaria di Voghera, al momento di erigere il teatro municipale, ho diviso aringhe e uova nelle brutte levate di Montreal e bevuto improbabili Barbareschi a Stoccolma. Abbiamo fatto l’alba in camere d’albergo in mezzo alla nebbia delle sigarette, dei sigari, delle pipe, a parlare di Riva e Leopardi, di comunismo e latifondi, di lepri e di ciclisti, di giornalisti e discoboli, di donne e settenari doppi.
L’ho amato e l’ho studiato, Brera. Ai mondiali del ’74 rileggeva i volumoni del Flora, nei momenti più impensati citava a memoria Rabelais o Goethe in lingua originale. Avendolo studiato, posso dire che s’è inventato un linguaggio. Prima da artigiano (gli strumenti per lavorare, i neologismi), poi da artista. Vedo che anche dopo la sua morte continua il dibattito: era un giornalista sportivo che scriveva anche altro o uno scrittore arruolato dallo sport? Vedo che c’è buonafede nel dibattito, ma lo trovo fastidioso come la domanda «Vuoi più bene al papà o alla mamma?». Fastidioso e inutile. Brera era uno che amava scrivere e sapeva scrivere. Era perfettamente consapevole della schiavitù del mestiere e fiero del rapporto qualità-tempo. In un giornalismo senza computer, fax, telecopier, si fosse al Tour o ai mondiali di calcio, il «trombettiere» di Brera estraeva cartella per cartella dalla Olivetti e man mano le dettava. Erano ritmi da pizzeria. Ma l’avventore-lettore non aveva ripercussioni negative. Il lavoro di politura, diceva lui, era possibile solo coi romanzi (uno lo scrisse in tre settimane, durante le vacanze al mare). Aveva sempre qualche storia per la testa e quasi mai il tempo di scriverla. La raccontava a tavola, era bello ascoltarlo. C’era sempre il suo fiume sullo sfondo. Aveva il senso del limite e insieme il senso dell’epico, Brera. Chi l’ha ascoltato parlare non si stupirà più del trasporto, della passione con cui ha raccontato i gesti dello sport. Analizzandone la meccanica, da studioso di atletica passato per il ciclismo prima di identificarsi, complici gli editori dei suoi quotidiani, quasi totalmente con il calcio. Gli piaceva il pugilato, non il basket. Sentiva il fascino dei motori ma imprecava appena si passavano i 120 in autostrada. Guardava sempre con attenzione la terra, i campi coltivati, in qualunque parte del mondo si trovasse.
Nella sua casa sul lago di Pusiano piantava un albero, in genere un acero, in ricordo di ogni amico che moriva. Ho riproposto gli scritti di Brera senza il minimo ritocco, così come sono usciti negli anni su libri, riviste, quotidiani. Ho scelto quelli che mi piacevano di più, che ricordavo quasi a memoria, e molti altri sono rimasti esclusi per ragioni di spazio. Ho ritrovato quello che mi pareva di trovarci da studente, Folengo e Runyon o anche Lardner.
Ho creduto di intravedere, nei tagli di alcuni dialoghi, un omaggio a Verga, e quando c’era (spesso) un animale di mezzo ho ripensato a Tombari. Ho poi deciso di non ordinare le scelte per argomenti né cronologicamente e quindi mi scuso se il lettore si sentirà sballottato fra uno storione e il Tourmalet. La colpa è mia e il merito è di Brera. Ho fatto una scelta «fluviale» perché Brera è stato un grande fiume senza mai problemi di siccità. Molto generoso nel dissetare, attento a non premere troppo sugli argini, carico di sedimenti, cose e voglia di andare. Posso ammetterlo solo alla fine: ho scelto col cuore.