Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  marzo 18 Mercoledì calendario

Con la globalizzazione cambia anche la via della seta, grazie a una banca cinese di investimenti. Parte il progetto per finanziare infrastrutture dall’Asia all’Europa. Partecipano Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna, suscitando il malumore americano

Ci saranno anche Italia, Francia e Germania tra i Paesi fondatori della Asian Infrastructure Investment Bank, il grande progetto lanciato dalla Cina per finanziare infrastrutture che attraversino l’Asia fino all’Europa. Il piano è stato presentato nel 2013 da Pechino, che da allora ha cominciato a lavorare alla (ri)costruzione della storica Via della Seta, promettendo investimenti per miliardi in ferrovie e gasdotti in Asia centrale e cercando di realizzare anche una strada marittima lungo le rotte del Sudest asiatico. Finora alla nuova banca, che avrà sede a Shanghai e una dotazione iniziale di 50 miliardi di dollari, avevano aderito 26 Paesi, compresa l’India. Pechino si è proposta come azionista di maggioranza.
Gli Stati Uniti avevano reagito cercando di dissuadere gli alleati occidentali dall’imbarcarsi in un’iniziativa percepita come rivale della Banca mondiale, basata a Washington. Secondo gli americani, un’istituzione finanziaria diretta dalla Cina non dà garanzie di governance trasparente e preoccupa sul fronte del rispetto delle regole economiche di libero mercato e ambientali. Il fronte però è stato rotto dalla Gran Bretagna, che la settimana scorsa ha annunciato la partecipazione. Uno scacco alla linea Usa proprio dall’alleato della special relationship, con Londra che dimostra di saper guardare ai propri interessi commerciali. Ora arrivano altri tre grandi Paesi del G7 e anche Corea del Sud e Australia mandano segnali di disponibilità.
Quante volte è stata ripetuta la previsione che questo sarebbe stato il «secolo cinese»? Tante, negli anni (più di trenta) nei quali il Prodotto interno lordo di Pechino cresceva a un ritmo del 10 per cento, con una punta del 14 nel 2007. Ora la corsa ha perso slancio, il presidente Xi Jinping è stato abile a inventare per il rallentamento la formula «nuova normalità», che significa un obiettivo intorno al 7% per il 2015. Però, proprio il lancio della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), con l’adesione dei principali Paesi europei, può rappresentare il colpo di gong per un rapporto di forze nuovo.
A Pechino lo sanno bene, anche se insistono a definirsi un Paese in via di sviluppo. Assicurano che investire nelle infrastrutture dell’Asia non è un’iniziativa geopolitica di potenza, non è una riedizione in mandarino del Piano Marshall. Il ministro degli Esteri Wang Yi giura che l’idea cinese è più antica del piano americano che ricostruì l’Europa dopo il 1945, perché affonda le radici nella storia millenaria della Via della Seta, ed è più nuova perché vive nell’era della globalizzazione, non in quella della Guerra Fredda. Sottigliezze dell’eloquenza diplomatica cinese. Il partito-Stato che governa incontrastato la Repubblica popolare dice anche di voler riformare l’ordine internazionale, ma promette che «non significa ribaltarlo, solo portare idee innovative, perché siamo sulla stessa barca, non vogliamo rovesciarla, ma viaggiare con gli altri passeggeri stabilmente verso la giusta direzione». Il punto è quale sia.
Il governo italiano ieri ha indirettamente replicato alle perplessità di Washington sottolineando che l’adesione degli europei alla AIIB servirà anche a costituire un’istituzione secondo i «migliori principi e le migliori pratiche in materia di governo societario e di politiche di salvaguardia, di sostenibilità del debito e di appalti». A Pechino, soddisfatti, ribadiscono che il mondo ha bisogno di infrastrutture per tornare a crescere stabilmente dopo quasi otto anni di crisi. Servono strade, ferrovie, porti, comunicazioni hi tech. Si calcola che questo mercato possa valere almeno ottomila miliardi di dollari. «Quindi perché la Cina non dovrebbe puntare su questa Banca di investimenti in infrastrutture che può produrre vantaggi per tutti? La Cina non ha ambizioni geopolitiche in questa partita, sono gli Stati Uniti che hanno una vecchia mentalità», ci dice Cui Hongjian, direttore del Dipartimento di studi europei del CIIS (China Institute of International Studies). E conclude suggerendo che per l’Italia può essere un doppio affare: entrare in questo mercato come azionista della AIIB e magari ricevere investimenti per le sue infrastrutture.
Un’operazione di soft power cinese che per ora spiazza gli Usa. Ma il colpo di gong della Banca per le infrastrutture può anche aprire una nuova fase di distensione tra Asia ed Europa.