la Repubblica, 18 marzo 2015
«Dalle grandi imprese, che lavorano con gli appalti, non nascono solo ponti, viadotti e ferrovie, ma anche valigie di soldi per il finanziamento occulto alla politica. È chiaro? Allora, i casi sono due. O perché tu, ministro, lo ritieni conveniente. Oppure perché i tuoi compagni di partito in passato hanno preso tangenti e ti impongono di non rompere il giocattolo». Parla Antonio Di Pietro, l’unico che non ha voluto Incalza nel suo dicastero
Com’è possibile, Antonio Di Pietro, che lei arrivi al ministero dei Lavori Pubblici, nel 2006, e scacci su due piedi Ercole Incalza, oggi polo negativo dell’inchiesta fiorentina? Difficile credere che lei abbia visto dove altri erano ciechi…
«Ero già stato monostro dei Lavori pubblici nel 1996, quando vi tornai trovai questa “struttura tecnica di missione”, creata ad hoc per togliere il potere ai provveditorati alle opere pubbliche, coordinata da Incalza. Restituii le funzioni operative a chi di lavori pubblici capisce, e cioè ai provveditori. E siccome la struttura è di controllo, ci misi a capo un maresciallo, poi diventato capitano, Salvatore Scaletta, con cui lavoravo nel 1992, ai tempi di “Mani pulite”. A Incalza non solo tolsi il coordinamento, ma lo misi fuori dal ministero».
Però poi Incalza è tornato…
«Al di là delle responsabilità penali, Incalza, che frequentava gli uffici dei ministeri dai tempi del socialista Signorile, aveva una storia giudiziaria importante. Era amministratore della Tav, nel 1993, e aveva a che fare con le aziende che già nel 1992 erano state inquisite da noi del pool Mani pulite. Nei vari sequestri di documenti emergeva che gli imprenditori arrestati parlavano di lui. Per competenza mandammo il fascicolo a Roma. Mi pare che qualche pubblico ministero che non ha fatto niente poi è finito sotto processo a Perugia. Con ciò voglio dire che l’anomalia non è nel mio comportamento».
Quale «anomalia» rivuole Incalza al ministero?
«Bisogna partire da un concetto, se no non si capisce dove sta il trucco. Dalle grandi imprese, che lavorano con gli appalti, non nascono solo ponti, viadotti e ferrovie, ma anche valigie di soldi per il finanziamento occulto alla politica. È chiaro? Allora, i casi sono due. O perché tu, ministro, lo ritieni conveniente. Oppure perché i tuoi compagni di partito in passato hanno preso tangenti e ti impongono di non rompere il giocattolo, che fai? Preferisci lasciare a capo del coordinamento uno che sai avere le mani in pasta. Agisci un po’ spontaneamente e un po’ “spintaneamente”, perché Incalza ha in mano il boccino finanziario».
Questo però era il sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica, ma oggi?
«Il sistema è diventato postmoderno. Una volta si ritagliavano le percentuali del 3, 5, 7 per cento che dalle imprese andavano al partito di riferimento. E, a fronte del denaro, c’era un atto specifico. Adesso il bello è che puoi fingere di essere onesto perché non serve più alcun atto specifico. Oggi ci si protegge a vicenda. La gelatina lega imprenditori e politici. Tra i loro mondi girano favori, interessi colossali, affari, tanto a pagare sono i cittadini, su cui gravano i rialzi del costo delle opere».
Qualcuno ci ha provato a mettere anche lei nella «gelatina»?
«Macché, comunque ho prevenuto ogni tentazione da parte di chicchessia con la rotazione degli incarichi direttivi. Se stai troppo nello stesso posto di potere rischi di creare i rapporti gelatinosi. Prevenire è meglio».
Però non tutti possono essere a conoscenza di patti nascosti sugli appalti…
«Ma non faccia l’avvocato del diavolo! Se girano quattrini, tutti sanno quello che serve sapere. Anzi, se posso dare un suggerimento, adesso che esiste l’Autorità Anticorruzione bisognerebbe far arrivare là tutte le carte giudiziarie, anche quelle vecchie di Tangentopoli. Ci sono fatti non penalmente rilevanti che però, portati nella stanza dei bottoni, possono far dichiarare un concorrente all’appalto “non gradito”».
Nell’inchiesta fiorentina si fa il nome di Antonio Bargone, suo sottosegretario.
«Nel 1996, per sei mesi. Poi io me ne andai perché sotto inchiesta a La Spezia, lui rimase».
Il ricco dipartimento delle Infrastrutture oggi ha due gambe, la struttura tecnica di missione e il consiglio superiore dei lavori pubblici.
«Nella stessa settimana in cui misi fuori Incalza, nel 2006, trovai Angelo Balducci. Gli detti un ruolo secondario e se ne andò lui. Sul piano politico in vita mia ho preso tante cantonate, ma sul piano del lavoro mi sono scontrato con vari centri di potere. Sapevo, per le indagini sullo Ior, sulla maxitangente Enimont, che Balducci aveva una “consuetudine oltre Tevere”. Magari uno non ci va solo per pregare, ma anche per peccare, e io gli tolgo la tentazione. Anche lui, come si sa, è finito in grossi guai».
Ma come un amministratore senza “naso” o esperienza può capire che sotto un appalto c’è un trucco?
«Personalmente penso che, se sei onesto, te ne puoi fregare. La cosa migliore per un amministratore è rendere trasparente passo dopo passo l’evoluzione dell’appalto. Tutto qui. E poi bisogna operare una netta distinzione tra il controllore e il controllato. È semplice ma non lo si fa. Anche quest’ultima inchiesta mostra come il controllato, e cioè le aziende, nominava il controllore, cioè Incalza, con il beneplacito del ministro Maurizio Lupi».
Qui però sembra che l’appoggio politico sia vasto, da destra a sinistra.
«Anche decenni fa esisteva la “temporanea d’impresa”, sistema che metteva tutti d’accordo, e che oggi prospera più che mai. Incalza è così importante perché ha messo insieme il mondo delle Coop rosse e il mondo di Cl».
Le istituzioni sanno e si girano dall’altra parte?
«Sanno e “non” si girano. Attuano una complicità omissiva. Molti sono o complici o ricattabili, e si vede dal fatto che solo chi è fuori del sistema viene delegittimato».
Prima di morire Gerardo D’Ambrosio, coordinatore del pool Mani pulite, si lamentava che nessuna sua legge anticorruzione fosse stata presa in considerazione… «Non le sue, né di Casson, io ne ho depositate 110, Pietro Grasso ci sta mettendo una vita… Inoltre, bisogna sapere dove e come colpire. Per esempio, si dice che per far emergere il falso in bilancio sarà possibile intercettare solo le aziende quotate in borsa. Il mafioso Angelo Siino, sub-appaltatore e non quotato in Borsa che cosa faceva? Tu, impresa del Nord, dimmi quanto vuoi spendere, e io in quella cifra ti faccio il lavoro, ti pago il politico, ti tolgo i problemi con la mafia. A volte a comandare non è chi siede in Piazza Affari, ma chi sta in strada. Lo sanno, quando fanno le leggi?».