La Stampa, 17 marzo 2015
Massimo Fini e Filippo facci davanti a un bicchiere. Tra ricordi di giornalismo, giovani «mezzi coglioni», sigarette, vino e qualche bella ragazza: «Cieco o non cieco, avevamo tutto»
Massimo Fini, qualche sera fa, mi ha invitato a farci un bicchiere. Uscivamo dalla Rai di Milano, dov’eravamo stati ospiti in un programma di libri, e forse ha pensato che – culturalmente – parlassi la sua stessa lingua. Da qui l’invito in un locale sotto casa sua, nonostante in passato ci fossimo brutalmente attaccati da un giornale all’altro. Prima che prendesse il taxi (io ero in motoretta) mi ha detto che era quasi cieco per via di un glaucoma, ma io già lo sapevo. Lo sapevo perché c’è scritto nel suo ultimo libro e perché era chiaro da come si muoveva. Sceso dal taxi, davanti al bar, dapprima non mi distingueva. Per muoversi meglio ha accettato una mano, ma sempre con dignitosa moderazione. Gli ho detto, poi, davanti al vino, che non doveva dolersi se in passato mi aveva giudicato un mezzo coglione: è un fatto generazionale, è normale, così come è normale che io sappia molte cose di lui e lui poche di me. Io ho letto i suoi libri: non credo che lui abbia letto i miei. Allo stesso modo – gli ho detto – ci sono ragazzotti che hanno letto libri miei, ma che io, siccome sto invecchiando, spesso giudico come dei mezzi coglioni. Sono gli anni a renderci ciechi: anche se, nel suo caso, la faccenda è ben più seria della mia comoda metafora. Però voglio dirgli una cosa. C’era l’alcol, quella sera, e c’erano le sigarette, c’era qualche immortale ricordo sul giornalismo – soprattutto suo – e nei paraggi c’era persino qualche bella ragazza. Cieco o non cieco, avevamo tutto.