Corriere della Sera, 17 marzo 2015
Il vino da solo non soffre. Se la civiltà del bere sa anche staccarsi dal cibo
Cibo e vino, un binomio imprescindibile, lo dimostrano i tanti cuochi chiamati a cucinare al (sempre più importante) Vinitaly. Ma anche no: c’è aria nuova in cucina e pure in cantina. Riassunto delle puntate precedenti. L’abbinamento cibo-vino è nato in Italia dopo il 1850 quando arrivano sul mercato le prime bottiglie dei prodotti migliori.
Apripista il marchese Antinori e qualche altro nobile a Montalcino, la marchesa del Falletto a Barolo, i tenimenti reali di Barolo e Fontanafredda. Lo racconta il grande Giovanni Rebora, u professù, nel suo fondamentale La Civiltà della forchetta (Laterza, 1998). Gli enologi, ça va sans dire, erano francesi. Mentre il commercio del vino in Europa si sviluppa ancora attorno ai vini dolci e ai liquorosi vini greci, i francesi cominciarono a produrre e vendere vini rossi e bianchi di grande qualità.
«Da qui nacque anche il gusto dell’abbinamento dei vini ai cibi e in seguito anche l’uso di costruire un intero pranzo da abbinare a una successione di vini. Credo che questa rivoluzione sia l’avvenimento più importante, nella cultura del vino, che si sia manifestato nell’età moderna» scrive Rebora.
Nel bellissimo racconto (e poi film) di Karen Blixen Il pranzo di Babette l’ex cuoca Babette Hersant, fuggita da Parigi e ospitata per anni come governante da due anziane sorelle, riceve un’ingente vincita e per ringraziare le donne la spende per preparare una cena con molte prelibate portate e cambio di vini. L’indomani le due sorelle chiedono a Babette se ora che ha ottenuto quella somma potrà tornare in Francia. Nessuno dei presenti alla cena, a parte un generale che l’ha riconosciuta, si è reso conto di quello che ha mangiato e bevuto. Il racconto è del 1950 e in Italia è stato pubblicato (da Feltrinelli) nel 1952. Eppure qui c’è chi si comporta come le due zitelle, chiedendosi come si possano spendere tanti soldi in un ristorante. Nessun francese, entrando da Bocuse o Troisgros si porrebbe questa domanda.
«Il vino segna il territorio di una civiltà, accompagna i cibi e ne esalta i sapori» dice ancora Rebora. Ma è noto il paradosso del maestro Gualtiero Marchesi: «Bisognerebbe bere solo acqua per comprendere bene i sapori». La sua idea ricorda un po’ quella del mitico Annibale Frossi, campione olimpico con la Nazionale italiana nel 1936, poi giornalista, per cui lo 0-0 era il risultato perfetto. Personalmente credo nella dignità distinta. E non sono il solo.
La cantina in un ristorante ha sempre la sua importanza, ma che senso ha offrire al cliente una carta dei vini che per girarla occorrono le braccione verdi dell’incredibile Hulk? Sono stato a cena recentemente in un grande ristorante milanese. La carta dei vini era un tablet e non era smisurata. Bando agli estremismi: non è uno scandalo pasteggiare con l’acqua (anche se non si è astemi) e neanche cambiare un vino ogni piatto, per chi ha il fisico (o l’autista o la camera di sopra). Dico «fisico» perché non sopporto quelli che cambiano otto vini ma si bagnano solo le labbra e mandano via il bicchiere praticamente pieno.
Questo è spreco. Comunque sempre più ristoranti hanno una carta snella, con etichette mirate e di qualità. In provincia i cuochi più intelligenti scelgono e propongono cantine locali eccellenti, anche piccole. Quindi, anche se non più ancorato solo al cibo, il vino non soffre. Anzi. Crescono le cantine private, aumenta l’interesse per la «cave» sotto casa. Oltre alla foto dei figli, sul cellulare, c’è chi mi mostra la foto della cantina e delle etichette.
Così l’Italia allarga l’orizzonte dell’interesse e della comprensione del vino. E a pochi mesi dal decimo anniversario della scomparsa, ci piace ricordare Gino Veronelli (29/11/2004) che per questo ha fatto tanto.