la Repubblica, 17 marzo 2015
La Cina si dà al cinema. Ogni giorno aprono tre sale nuove, gli incassi di febbraio hanno superato quelli Usa e i loro studios sono i più grandi del mondo. Altro che Hollywood
In sala silenzio assoluto. I cinesi al cinema trattengono il respiro. Negli occhi solo neri, puntati sullo schermo 3D, si riflette la necessità di carpire il segreto del futuro. Sedere qui è già il marchio di un successo. Imax di Chaoyang, tra i grattacieli di Pechino: due ore in fila per un biglietto, tre giorni di lavoro per pagarlo, popcorn esclusi. Nelle metropoli il weekend non lascia alternative: migranti esausti vagano tra i miraggi dei cellulari, giovani colletti bianchi si perdono tra i sogni dei film. Proiettano il blockbuster uscito per il capodanno lunare: “L’ultimo lupo”. L’ha girato il francese Jean Jacques Annaud ma è tratto dal cinese “Il totem del lupo”, romanzo cult da 25 milioni di copie, scritto da Jiang Rong.
Sentirsi parte del popolo che va al cinema, nei giorni in cui i leader rossi erano riuniti nell’Assemblea nazionale, non è stato un atto sovversivo. Alla nomenclatura dice però che i cinesi oggi vogliono vivere come gli occidentali. Certe scene di amore, di violenza e di sesso, non passerebbero il filtro della censura sulla televisione di Stato. Sul grande schermo invece, gli affari sono affari, l’occultamento politico della vita si ammorbidisce.
Per andare al cinema, in Cina, prima di tutto ci si mette eleganti. Le poltrone sono rosse e i profumi sono forti. “L’ultimo lupo” è un evento e le probabilità che associargli l’aggettivo «storico» non suoni ridicolo, sono medio-alte. La trama è, come si dice a Pechino, «sensibile». Lo studente Chen Zhen, all’inizio della Rivoluzione culturale, viene spedito in Mongolia per civilizzare le tribù dei nomadi pastori. Undici anni di condanna per scoprire che al contrario sono i colonizzatori han (l’etnia prevalente in Cina) ad avere tutto da imparare da un mondo intatto. Non riuscirà a fermare la furia dei rivoluzionari comunisti, che distruggono i templi buddisti e sterminano i branchi dei lupi. Sceglie però di adottare l’ultimo cucciolo, atto estremo di rifiuto contro un potere che può legittimarsi solo cancellando sia la cultura che la natura.
Centinaia di ragazzi guardano e tacciono. Sono commossi e stentano a credere che questo film, così gonfio di metafore politiche, sia proiettabile in Cina. Si interrogano sulle ragioni e su possibili svolte non annunciate. Sul perché il partito abbia concesso la regia ad Annaud, bandito nel 1992 come «anti-cinese» dopo aver girato “Sette anni in Tibet”, sullo sfondo dell’occupazione maoista. «I produttori della Beijing Forbidden City – racconta il regista – mi hanno detto che la Cina è cambiata e che i cinesi adesso sono gente pratica. Che avevano bisogno di me perché non sanno fare quello che faccio io». Assicura di aver ottenuto «una libertà assoluta e inspiegabile». La massa che in queste ore preme al botteghino, in tutto il Paese, spiega qualcosa e autorizza l’azzardo dell’aggettivo “storico”.
In febbraio, per la prima volta, gli incassi al box office in Cina hanno superato quelli negli Stati Uniti. Le sale cinesi hanno guadagnato 650 milioni di dollari, rispetto ai 640 di quelle americane. Nella settimana delle ferie l’incasso è arrivato a 270 milioni. Oltre che da “L’ultimo lupo” le casse sono state sbancate dai cinesi “L’uomo di Macao” e “La lama del drago”, dagli stranieri “The Hobbit” e “The hunger games”, ognuno capace di raccogliere tra i 35 e i 104 milioni di dollari. Nei primi dodici giorni il film di Annaud è stato visto da 12 milioni di cinesi, 80 i milioni incassati. Nessuno aveva previsto già nel 2015 il sorpasso Cina-Usa anche al cinema, fissato tra otto anni. Invece si è già consumato e sebbene il primato sia circoscritto ad un mese, ricco in Oriente e povero in Occidente, le conseguenze economiche e culturali si annunciano enormi.
Il morso imposto alla censura e al protezionismo dal presidente Xi Jinping, che ha aumentato da 20 a 34 le opere straniere importabili ogni anno, rivela come il partito abbia appreso la lezione di Hollywood: i valori del cinema diventano i valori del popolo e chi fa sognare la gente ne conquista, oltre che i soldi, anche cuore e cervello.
Il “caso Cina” è impressionante. Nel 2007 per 1,4 miliardi di cinesi c’erano 3mila schermi. I 316 milioni di statunitensi potevano scegliere tra 40mila. In sette anni solo una tra queste cifre è mutata: gli schermi cinesi sono esplosi a 25mila. Saranno il doppio entro il 2025. Ogni giorno in Cina vengono aperti tre nuovi cinema, di cui uno Imax. Gli spettatori crescono del 22% all’anno e nel 2014 il box office interno ha superato i 4,5 miliardi di euro, rispetto ai 900 milioni del 2009. Il terzo miliardario più ricco del Paese si chiama Wang Jianlin e il suo Wanda Group possiede 150 sale e 1300 schermi 3D. È il primo gestore mondiale di cinema e, acquisiti i diritti tivù del calcio europeo, sta completando la scalata a Hollywood. Cinesi sono anche i più grandi studi cinematografici del pianeta: gli Hengdian World Studios, 300 chilometri a sudovest di Shanghai, coprono 2500 ettari e vantano 13 set. In vent’anni sono stati girati qui 1200 film, più che in California e che nell’indiana Bollywood. Hengdian era un villaggio con di 8mila contadini. Xu Wenrong, ex bracciante di risaia, 80 anni, lo ha trasformato nel più grande centro di produzione contemporaneo. Girare un film in Cina costa un decimo che negli Usa, quindici volte meno che in Europa. Pechino al cinema supera dunque Washington non solo per giro d’affari, ma anche per opere prodotte e proiettate.
Lo spostamento del video soft-power è tale che nemmeno censura e propaganda rappresentano più un problema. L’industria cinematografica occidentale ha un bisogno disperato di accedere al pubblico asiatico. I tagli imposti da Pechino, che un tempo facevano gridare all’«inaccettabile sfregio», vengono definiti oggi «doveroso rispetto delle sensibilità nazionali». Molti, pensando ai botteghini cinesi, si auto-censurano prima di girare. Il resto dei produttori di Usa e Ue tagliano a comando, invocando «aggiustamenti dettati del business globale».
Il punto è semplice. Negli Stati Uniti gli spettatori calano e invecchiano, assieme alle sale minate da web e pirateria. In Cina gli schermi esplodono, chi va al cinema si moltiplica ed è sempre più giovane. La solitudine di 400 milioni di migranti nelle megalopoli e l’incubo dello smog, che scoraggia qualche bella passeggiata, contano. Dalle origini però il cinema nasce e va forte nei Paesi di successo, con l’economia in crescita, dove la gente guarda al domani con la fiducia di poter realizzare il proprio sogno. A questa regola la Cina aggiunge il messaggio più importante: per “esigenze di mercato” l’immaginario del mondo e quelli che si usano definire i “valori dell’Occidente” diventano sempre più cinesi, come nel Novecento, grazie a Hollywood, da europei si fecero statunitensi. Pechino ha capito che il cinema, con la cultura che esprime, vale molto di più dell’industria e delle auto che esporta. Nelle trenta sale Imax di Chaoyang la censura questa sera lascia che migliaia di increduli ragazzi vedano gli stessi sogni del resto del mondo perché il “nuovo Mao” sa che la Cina li sta nel frattempo acquistando e si appresta a rigenerarli. I nuovi consumisti cinesi, come i coetanei americani ed europei, nonostante tutto credono nella civiltà occidentale: non appena anche la rappresentazione di essa sarà made in China, la migrazione del pensiero dominante dall’Occidente all’Oriente sarà consumata.
Il profilo dei buoni e dei cattivi cambia, dopo i soldi tocca alle idee. Qui il pubblico resta in silenzio anche quando dal cinema esce nelle luci della notte, accolto dai botti di feste infinite. “L’ultimo lupo” insegna il valore della libertà, ma prima la potenza del branco. Non è un caso che la Cina oggi lo veda prima dell’America.