il Fatto Quotidiano, 16 marzo 2015
Vita da sherpa. «Rischiamo la vita per portarvi sull’Everest». Fatiche terribili e tanti rischi: in un anno 16 morti
“Quando arriviamo in vetta è come se la tua mente si ripulisse di tutto. Ho visto tante volte gente piangere, non sai se per la stanchezza o la felicità. Pensi alla tua famiglia, ai tuoi progetti, al tuo lavoro, alla fatica”. Ma per farcela, racconta Ngima, sherpa di 46 anni che vive tra Italia e Nepal, la strada è lunga e pesante. “Quando salgo con il gruppo che guido, so di essere io il responsabile, quello che deve organizzare la spedizione dall’inizio alla fine”.
I signori dell’alta quota
Gli sherpa: nessuno come loro ha esperienza dell’Himalaya, dato che in alta quota ci sono nati. E che molto spesso ci muoiono anche. Nell’aprile dell’anno scorso una valanga ne ha sepolti 16, l’ultimo di una lunga serie che ne ha uccisi 33 in 15 anni. Il punto è che più volte si sale, più il rischio aumenta. E i primi ad andare su sono sempre e comunque loro. “Attrezziamo la corda, la mettiamo nei punti più critici, apriamo la via”, prosegue Ngima. Questo è il ruolo dello ‘ice doctor’ – il più specializzato tra gli sherpa ndr -, di fatto la categoria che rischia di più. “Gli ice doctor sono i primi a salire a inizio stagione, devono trovare il tracciato e porre nuove corde nei punti critici. Ogni anno quasi tutte le corde vanno sostituite, perché valanghe e frane, molto frequenti, le hanno rese inutilizzabili”.
La paura e la preghiera
“Preghiamo ogni volta che arriviamo al campo base prima di partire”, confida Ngima. “Facciamo la nostra puja”, un rituale che mischia religione e superstizione con il quale si chiede clemenza agli dèi della montagna. Solo quando il lama ha recita i suoi mantra e il riso viene gettato il vento in segno di buon augurio, gli accompagnatori si sentono protetti. Per gli sherpa, l’Himalaya è fonte di ricchezza così come di dannazione.
In spalla 30 chili, e spiccioli in tasca
“Quando ho iniziato avevo 13 anni. Prendevo 15 centesimi di euro al giorno”. Ngima è uno sherpa, cioè un appartenente all’etnia nepalese che conta forse 20.000 anime, sparse principalmente tra le valli del Khumbu, ai piedi dell’Everest, e quelle dell’Annapurna. La sua scalata sociale per diventare un leader sherpa è cominciata trent’anni fa. A Damar, il villaggio a quasi 3000 metri di altitudine dove Ngima è nato, non c’era la scuola, se non a due ore di cammino, così come accade praticamente in tutti i villaggi d’alta quota. Gli sherpa sono una minoranza etnica in Nepal, e oltretutto sono di religione buddista in un Paese a maggioranza indù. Il già precario sistema scolastico nepalese, in larga parte non statale e in mano ad istituzioni private, incontra grandi difficoltà logistiche anche per arrivare nelle valli da loro abitate. Oltretutto per i bramini – casta indù che tradizionalmente si occupa dell’istruzione – gli sherpa non sono certo una priorità. “A Da-mar i bramini non arrivavano”, ricorda Ngima.
E allora si parte. Per poter tornare verso le montagne con qualcosa in mano, i bambini sherpa si riversano sulla capitale, Katmandu. “Mi piaceva l’idea di lavorare e guadagnare qualche soldo”, dice Ngima, delle cui origini modeste non fa certo mistero. “Ho cominciato come tutti: facevo il portatore”. Il lavoro più basso per gli sherpa, adatto appunto ad un ragazzino senza esperienza. È un uomo ancora di etnia sherpa chiamato Sirdar – sostanzialmente il capo dei portatori – a selezionare i ragazzi. Ai nostri giorni, molti di loro non sono più di etnia sherpa come erano quando Ngima è andato ad arruolarsi a Katmandu, ma ragazzi nepalesi ansiosi di sfuggire alla miseria. Gli sherpa si tengono però stretta la loro competenza di guide di alta montagna.
Essenziali forza e velocità
I criteri dell’esame pratico sono pochi: forza e velocità. “La prima volta ti fanno provare, ma sei tu che devi proporti al Sirdar se vuoi entrare nella sua squadra. Fai una giornata, ti pagano, e poi dicono se vai bene o no”. Si lavora fino a 10 ore al giorno, si mette sulle spalle quello che serve per i gruppi, che facciano semplici trek (camminate di alta quota) o vere e proprie spedizioni alpinistiche: materiale per la spedizione come i viveri per la cucina, le attrezzature per le tende, il cherosene per l’illuminazione e le bombole di ossigeno. I portatori dormono per terra in sistemazioni prive di confort e riposano lo stretto necessario. Una vita di fatica che per Ngima dura tre anni, cioè fino a quando non ne ha solo 16.
Quella di essere arruolati giovanissimi come portatori è una pratica relativamente recente. Così come è nuovo per uno sherpa (inteso come etnia) essere uno “sherpa” (inteso come guida). La loro epopea moderna comincia solo nel 1953, quando lo scalatore neozelandese Edmund Hillary riesce a conquistare la montagna più alta del pianeta: l’Everest. Con sé fino agli 8.848 metri, Hillary chiama l’alpinista sherpa Tenzing Norgay, che praticava già da anni le alte vie e senza l’esperienza del quale quell’impresa sarebbe forse stata impossibile. Come portatore prima e poi Sirdar, Tenzing si era fatto le ossa con le pionieristiche missioni himalayane di alpinisti di tutto il mondo, provando più volte la salita fino alla cima più ambita. Impresa a cui va vicino nel ’52 con una spedizione svizzera, e che però gli riesce solo il 29 maggio dell’anno dopo insieme a Hillary. Proprio con Tenzing, in fondo, nasce il mito dello sherpa. Almeno quello ad uso e consumo del mondo occidentale.
La fortuna di Ngima
Qualche decennio più tardi, e nel solco di quel trionfo che assume oggi contorni romanzeschi, la storia di uno sherpa come Ngima si può considerare particolarmente fortunata. Dopo essere stato portatore passa in cucina (dove “si lavora sempre e non si dorme mai”), poi arriva a diventare cuoco riuscendo anche a studiare l’inglese per alcuni mesi. Questo maggior grado di istruzione gli permette infine di aprire la sua prima piccola agenzia. La svolta, per Ngima arriva nel 2002 grazie all’incontro con un italiano. “Nel gruppo di trekking che avevo appena guidato c’era Vincenzo Spada”, racconta “alpinista e medico di Varese. La mattina del nostro ritorno a Katmandu, Vincenzo si sveglia con dolori fortissimi. Lo porto in ospedale, dove mi dicono che deve operarsi d’urgenza: è appendicite”. Il medico italiano ha bisogno di tutto: di assistenza, dato che all’epoca non parlava bene l’inglese né la lingua locale, ma soprattutto di soldi, dato che non ne aveva più per potersi pagare l’operazione. Ngima lo assiste e ci mette anche i soldi necessari. Una volta guarito, Vincenzo gli chiede se vuole andare con lui e lavorare in Italia. Lui non ci pensa un attimo: “Allora le cose andavano male, trovare lavoro era difficile. Il Nepal era nel mezzo degli scontri tra guerriglieri maoisti ed esercito governativo e i turisti erano quasi scomparsi. Io avevo una moglie e una figlia…”.
Per arrivare a Varese, in realtà, ci sarebbero voluti quasi cinque anni di burocrazia tra Nepal e Italia, dove ha lavorato anche come giardiniere e di nuovo come cuoco. Oggi è una guida affermata e gestisce anche dall’Italia una propria agenzia, la Unlimited Sherpa Expeditions. “La mia condizione è molto migliorata”, osserva con soddisfazione ricordando i suoi primi anni da portatore e inserviente di cucina. “Ma non posso dimenticare la mia gente”. Oggi per i ragazzini che faticano con 30 chili sulle spalle c’è forse qualche regola in più e il lavoro non manca. Insieme però ai tanti rischi della montagna e alla costante povertà delle loro valli. Nel villaggio di Damar, per esempio, un ambulatorio e la prima piccola scuola sono arrivati solo adesso. Non ci ha pensato il governo, ma uno sherpa nato lassù e arrivato lontano.