Corriere Economia, 16 marzo 2015
Il lungo addio di Crediop, una fine silenziosa e con poca gloria. Dexia ha deciso di anticipare i tempi, si chiude nel 2016. Da Beneduce a Carli alla collezione d’arte di Baratta
La domanda sul destino dell’ingente collezione d’arte, messa assieme in gran parte per iniziativa dell’ex presidente Paolo Baratta, viene spontanea. Che ne sarà per esempio dei pregevoli dipinti del Veronese, come la Venere che disarma Amore, o di van Wittel o di Sironi, Fattori e De Nittis tanto per citarne alcuni. Prenderanno la strada di Parigi?
Amarezze
L’interrogativo, forse prematuro ma certamente amaro, circola tra i dipendenti di Dexia-Crediop che in questi giorni assistono al via vai di ingegneri e architetti, indaffarati nel prendere misure e foto dello storico palazzo di via XX Settembre, proprio di fronte all’entrata principale del ministero del Tesoro, sede romana dell’Istituto di credito franco-belga-italiano, con presumibili intenti di prepararne la vendita. Già perché per Dexia-Crediop sembra giunto l’ultimo atto della liquidazione. Una liquidazione, improvvisamente accelerata, rispetto all’obiettivo della lenta «risoluzione ordinata» prevista invece per la casa madre Dexia, il colosso franco belga travolto nel 2008 dalla crisi dei derivati.
Una fretta che significa chiudere i battenti invece che nel 2020 o nel 2030 già alla fine del 2016 con buona pace dei 177 dipendenti coinvolti nella prospettiva di un licenziamento collettivo. Una fine veloce, quasi muta – le sole voci che si sentono a riguardo sono quelle di protesta dei sindacati, che oggi avranno un incontro al ministero del Lavoro e di qualche parlamentare del Pd – e ingloriosa che stride col passato. Il Consorzio di credito per le opere pubbliche, nato nel 1919 per iniziativa di Alberto Beneduce che ne fu presidente fino al 1940, a cui nel 1924 affiancò l’Icipu, l’Istituto di credito per le opere di pubblica utilità, per realizzare costruire l’industria elettrica e le principali infrastrutture dell’Italia, prima fra tutte il completamento e la modernizzazione della rete ferroviaria.
Innovazione
Le testimonianze e gli studi confermano che l’innovazione vincente dei due istituti fu quella di creare un mercato finanziario per gli investimenti pubblici tramite la raccolta di denaro presso i risparmiatori con l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato. Il dopoguerra vede i due istituti allargare le proprie prospettive nel rilancio industriale, e negli anni Settanta partecipare alla costruzione dell’industria chimica al Sud e al potenziamento della rete autostradale. Fino a che l’Icipu, coinvolto e soffocato dagli investimenti della Liquigas di Raffaele Ursini, non viene assorbito nel Crediop che invece si è salvato, grazie all’intervento dello Stato, dalla moltiplicazione esponenziale dei costi – e dall’insolvenza delle concessionarie coinvolte – dell’ambizioso progetto delle Autostrade. Per il Crediop riparte una nuova vita nel credito speciale. Si arriva, con Guido Carli ministro del Tesoro e Carlo Azeglio Ciampi governatore della Banca d’Italia, alla trasformazione in società per azioni e nel 1995 al passaggio sotto il cappello del San Paolo di Torino. Nel consiglio del Crediop siedono banchieri e economisti, fra i quali anche Mario Draghi in rappresentanza del ministero di via XX Settembre di cui era direttore generale. Nel ‘98 però il San Paolo decide di acquisire l’Imi e l’anno successivo vende il Crediop a Dexia. Per l’istituto fondato da Beneduce, diventato Dexia-Crediop, inizia la terza vita, in cui ai tradizionali mutui agli enti locali affianca, con la regia di Parigi, la vendita a comuni e regioni di derivati. Un business ricco che però travolge Dexia e di seguito anche la sua filiale italiana. Piovono le cause giudiziarie, ora quasi tutte concluse con accordi che tutelano le ragioni di Dexia Crediop mentre sull’altro fronte resiste la lite intentata dal comune di Prato.
Ultimi atti
Il Crediop si avvia dunque alla chiusura. Negli ultimi vent’anni di istituzioni storiche ne sono sparite molte, dall’Iri all’Ina alla Banca di Roma, tanto per fare gli esempi delle realtà della Roma finanziaria che non esistono più. Ma il caso del Crediop è diverso, è quasi paradossale, perché non si sta pensando ad una fusione o ad un destino che conservi il patrimonio, non solo artistico. Ma ad una chiusura tout court, nonostante il bilancio in attivo, in cui non risultano perdite, un patrimonio di vigilanza di 1,3 miliardi di euro, circa 3 miliardi di sue obbligazioni in mano ai risparmiatori italiani e circa 20 miliardi di prestiti agli enti locali da poter rinegoziare. E nonostante la presenza tra gli azionisti, col 30% complessivo, di tre grandi banche popolari – Banco Popolare, Popolare di Milano e Popolare dell’Emilia Romagna – che se l’istituto chiudesse perderebbero il loro investimento.
I dirigenti si sono attivati per proporre un programma di rilancio autonomo facendo perno sulla partecipazione delle popolari, ma finora senza risultati mentre i sindacati denunciano «il silenzio del governo e delle autorità».