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 2015  marzo 16 Lunedì calendario

Privatizzazioni, la strada è ancora lunga. E intanto le Poste valgono un po’ meno. Incassati 5,6 miliardi su 10. Giù il prezzo del gruppo di Caio per le minori entrate dal Tesoro

Per ora siamo a metà strada. Dei 9-10 miliardi all’anno in ricavi da privatizzazioni, obiettivo annunciato nel 2014 dal ministro all’Economia Pier Carlo Padoan, ne sono finora arrivati 5,62 (dato alla scorsa settimana): 2,163 dalla vendita del 5,74% dell’Enel, il 26 febbraio scorso; e l’anno prima 280 milioni dal collocamento in Borsa del 35% di RaiWay; 400 milioni dalla vendita a Shanghai Electric del 40% di Ansaldo Energia, 357 milioni dalla quotazione del 27% di Fincantieri, fino al boccone più grosso, la vendita del 40,9% di Cdp Reti (che contiene quote di Terna e Snam) sempre ai cinesi (State Grid) per 2,417 miliardi.
Cinque operazioni in un anno per 5,6 miliardi d’introito non sono poche in assoluto, ma il ritardo sugli annunci si avverte: ne restano sette. Scalda i motori Grandi Stazioni (vedi a pagina 8), ma l’attesa è tutta per Poste che il 24 marzo terrà il consiglio d’amministrazione sul bilancio da approvare in aprile, con utile previsto in discesa (era di 1,05 miliardi nel 2013) anche per il calo dei margini da corrispondenza.
Per definire i passaggi essenziali della privatizzazione venerdì scorso, 13 marzo, Fabrizio Pagani, capo della segreteria tecnica del ministro delle Finanze, ha presieduto la riunione con Francesco Caio, amministratore delegato di Poste, e gli advisor. Secondo altre fonti è prevista per luglio-agosto la consegna in Consob del prospetto informativo, per debuttare in Borsa in novembre.
È invece confermato lo slittamento al 2016 per la quotazione di Ferrovie dello Stato, che sta scegliendo l’ advisor industriale per la quotazione («Entro aprile», ha detto settimana scorsa l’amministratore delegato Michele Mario Elia). Nella rosa dei candidati, secondo fonti, c’è il Boston Consulting Group. che con Fs ha uno storico rapporto di collaborazione. Fra i possibili candidati, poi: Accenture, McKinsey, Bain.

Le tre congelate

Che cosa manca poi all’elenco delle privatizzazioni, rispetto alle previsioni? Enav, Sace, Eni, Stm. Le prime tre risultano ancora sospese (come dire 3,5 miliardi congelati), a meno di scatti di reni sull’Ente di controllo dei voli. Prima della vendita (o quotazione) della minoranza dell’Enav, infatti, il Tesoro deve indire l’assemblea per nominare l’amministratore delegato, vacante da mesi. Secondo fonti governative, sarà convocata nelle prossime settimane: si sta lavorando per cercare la persona giusta. Enav potrebbe quindi anche essere privatizzata nel 2016, con Fs. Ibernate invece la quotazione di Sace e la cessione del 3-4% dell’Eni, a maggior ragione dopo la sospensione del piano di riacquisto delle azioni proprie annunciata venerdì 13. Può però essere avviata entro l’anno la vendita del 14% di Stm al Fondo strategico italiano. Ai prezzo di Borsa dell’11 marzo vale 1,146 miliardi, l’operazione è ritenuta semplice.
Sulle privatizzazioni il governo procede e al Tesoro si ritiene importante dare il segnale: si sta riducendo il debito pubblico, si lavora sul serio, l’obiettivo è dare a queste aziende capitale per lo sviluppo e trasparenza. Il punto è che, rimandando, le stesse imprese possono perdere valore. Prendiamo Poste, assistita da Rotschild e Clifford Chance: il tema del prezzo è aperto, scordiamoci i valori del 2014.
L’anno scorso l’azienda, guidata fino al 7 maggio da Massimo Sarmi che sulla privatizzazione aveva un proprio piano industriale, era valutata 10-11 miliardi: calcolo basato sui 3,28 miliardi che il 35% di Poste venne stimato nel 2010, quando il pacchetto azionario fu trasferito dalla Cdp al Tesoro (stima di Deutsche Bank). La quotazione del 40% avrebbe portato dunque al Tesoro circa cinque miliardi. Ora le banche ritengono che la cifra sia inferiore, perché cala il valore del contratto di programma per il servizio universale. Secondo fonti istituzionali vicine al dossier quei dati non sono più validi, perché basati su un piano industriale molto diverso dall’attuale. Quanto, allora? Un’incasso di tre miliardi per il 40% non è ritenuto dagli operatori un’eresia, anche vista la forchetta dell’intero gruppo fra 6 e 11 miliardi circolata venerdì scorso.

L’accordo sulle lettere

Con il contratto sul servizio universale lo Stato remunera Poste per la consegna (in perdita) della corrispondenza in tutta Italia. La richiesta di Poste è da decenni intorno ai 700 milioni all’anno, anche per via dei crediti arretrati con lo Stato che non paga puntualmente (nel primo semestre 2014, per esempio, erano di 919 milioni). Finora le venivano riconosciuti 380-340 milioni all’anno (343 nel 2013), ora secondo la legge di Stabilità la cifra scenderebbe a 260 milioni. Si contratta, l’accordo dovrebbe essere firmato in aprile: con il ministero dello Sviluppo, di concerto con il Tesoro e dopo la pronuncia dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
È un passaggio essenziale per la quotazione, in un calendario ufficioso che prevede, in maggio-giugno, la revisione della governance secondo le indicazioni della Banca d’Italia. Certo, «la riduzione dei compensi derivati dal contratto di servizio universale può essere uno svantaggio apparente, compensata dai tagli previsti dal nuovo piano industriale», come dice una fonte finanziaria. Perché il baratto è chiaro: Poste incassa meno soldi dallo Stato e però consegna lettere a giorni alterni in alcune zone. E l’obiettivo industriale di Caio è rafforzare le altre due gambe, il Bancoposta ma soprattutto PosteVita, con nuove polizze nella logica del «welfare stare»: salute, protezione famiglia. Ma dietro la svalutazione del gruppo c’è anche, secondo osservatori, la percezione di una certa confusione. Il ruolo del direttore finanziario, per esempio, è centrale e da pochi giorni è ricoperto da Luigi Ferraris. Il predecessore, Luigi Calabria, era stato chiamato in luglio proprio da Caio: sei mesi e via.
Non è un dettaglio, se devi spiegare perché mettere soldi in Poste Italiane agli investitori stranieri.