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 2015  marzo 16 Lunedì calendario

Israele alle urne. Domani il Paese sceglierà tra la continuità rappresentata da Netanyahu e il centrosinistra di Herzog e Tzipi Livni. E sullo sfondo resta irrisolto l’eterno dilemma sui due Stati. Per Amos Oz è «una questione di vita o di morte»

È come la morte. Tutti ammettono che esiste e che è inevitabile. Ma si spera che arrivi il più tardi possibile. Non ci si pensa quindi troppo o la si ignora. È un modo un po’ brutale, me ne rendo conto, per affrontare il problema di cui, malgrado l’importanza, non si è parlato direttamente durante la campagna elettorale israeliana appena conclusa. Mi porta a questa azzardata immagine Amos Oz, uno dei maggiori scrittori viventi. Assente dal dibattito in vista del voto di domani, ma ben presente nelle menti e negli scritti, la questione è in realtà un dilemma: è meglio arrivare a uno Stato binazionale o a due Stati divisi, uno israeliano e l’altro palestinese? Oppure lasciare le cose così come sono, moltiplicando gli insediamenti israeliani nei territori occupati (o contesi)? I partiti di estrema destra, quello di Nafali Bennet (Habayt Hayeudi) o di Avigdor Liberman (Yisrael Beiteinu), archiviano tutti gli interrogativi. Per loro la sovranità o il controllo di Israele sull’intera Palestina, con formule diverse, non sono in discussione. Sono un dogma. E nel corso della campagna elettorale gli altri partiti, in particolare quelli concorrenti di destra, per recuperare o non perdere voti si sono discostati con cautela da quelle posizioni estreme o addirittura le hanno appoggiate.
Il tema della sicurezza è uno dei più sentiti e attraversa in diagonale la società.
Dice Amos Oz che in generale ci si adagia da anni in una specie di violenta e incosciente routine, «una gestione del conflitto», pur di rinviare la grande decisione dei due Stati. L’appuntamento inevitabile in un futuro imprecisato, da rinviare il più possibile, sorge puntuale nella mente degli israeliani. Per gli uni è una rinuncia al Grande Israele. Per altri un incubo. Per altri ancora l’unica soluzione. Una soluzione obbligata; o razionale; o dovuta, trattandosi di un vitale adeguamento alla realtà, che certo travolge convinzioni, ma salva dal peggio.
La letteratura contemporanea israeliana ha l’affascinante peculiarità di esprimersi in un’antichissima lingua restaurata e ammodernata: l’ebraico. E gli scrittori che l’alimentano (come i registi e gli attori nel cinema, altrettanto vivo e critico della società) sono spesso le indispensabili coscienze di un paese in preda ad ansie e passioni. Nel pieno della campagna elettorale, quando nessuno affrontava il futuro assetto della terra contesa da due popoli, Amos Oz ha detto, in due conferenze, che quel trascurato problema è una questione di vita o di morte per Israele.
Se non si creano al più presto due Stati può nascere il timore di vedere delinearsi tra il mare e il fiume Giordano uno Stato arabo. L’autore di Giuda, l’ultimo suo romanzo, scarta l’idea di uno Stato binazionale, come quello spagnolo o belga. Per lui non è possibile in Medio Oriente. E pensa che la paura di uno Stato arabo possa portare a una temporanea dittatura di fanatici israeliani che opprimerebbe entrambi, gli arabi e gli stessi oppositori ebrei con una mano di ferro. La dittatura avrebbe una vita breve. È difficile infatti nella nostra epoca, secondo Amos Oz, che la dittatura di una minoranza, in tal caso israeliana, riesca a sopravvivere a lungo e non venga schiacciata dalla maggioranza. Da qui l’urgente necessità di creare due Stati ben divisi, perché una convivenza oggi è impossibile. Lo sanno bene entrambi i popoli. Ma adagiarsi in «una gestione del conflitto» come accade da anni, vale a dire continuando a usare il bastone in Cisgiordania, i missili a Gaza, affrontando puntuali intifade, scontrandosi con Hamas e con gli hezbollah, e aspettando o subendo altrettanto puntuali ventate di terrorismo, ritarda soltanto l’inevitabile appuntamento della divisione. Quella di Amos Oz può essere presa come una visione romanzesca, se non si tiene conto della situazione mediorientale, e delle giustificate apprensioni che essa suscita in chi vi è immerso. Ce l’ha sotto gli occhi.
Durante la campagna elettorale non si è parlato, è vero, di quel che Amos Oz chiama una questione di vita o di morte per Israele, e che la stragrande maggioranza dei paesi del pianeta, Stati Uniti in testa, chiede, cioè la nascita di uno Stato palestinese. Benyamin Netanyahu ha dimenticato da un pezzo il discorso pronunciato a Bar Ilan nel 2009 in cui accettò il concetto di due Stati e precisò di non avere l’intenzione «di costruire nuove colonie o di espropriare terre per quelle esistenti». I coloni nei territori occupati sono 350 mila, non sono mai stati tanti, e ce ne sono inoltre 300mila a Gerusalemme Est, che Israele ha conquistato nel 1967 e che ha annesso in seguito, con una decisione giudicata illegale da larga parte del mondo. Infatti quasi tutte le ambasciate, comprese l’americana e l’italiana, sono a Tel Aviv, nonostante la Knesset abbia dichiarato Gerusalemme capitale di Israele.
Penso che a Gerusalemme gli israeliani abbiano diritto alla precedenza, sul piano religioso. Per gli ebrei è il centro dell’universo, è la prefigurazione della Gerusalemme celeste. Mentre per i cristiani quel che conta non è tanto il luogo quanto la figura di Cristo. E per i musulmani prima di Gerusalemme vengono la Mecca e Medina. Sul piano politico capita tuttavia, come sabato sera, durante un breve dibattito televisivo con il laburista Isaac Herzog, che Benyamin Netanyahu si comporti con spavalderia. Ha detto spazientito: «Se gli ebrei non hanno il diritto di costruire a Gerusalemme, dove possono farlo?». In realtà costruiscono da tempo a valle e sulle alture, dove vogliono, nonostante gli inviti a non farlo dell’Onu e degli Stati Uniti. Ma in quel contesto e con quel tono l’affermazione significava anche scartare l’idea dei due Stati, poiché Gerusalemme dovrebbe essere la capitale condivisa, sia pure in una sempre più vaga prospettiva. I palestinesi si stanno abituando alla vicina Ramallah, loro capitale provvisoria in espansione?
Netanyahu si è rivolto agli elettori del Likud e a quelli degli altri partiti di destra, la cui base popolare è spesso di origine orientale (sefardita). Ma in generale anche agli israeliani per i quali è impensabile una rinuncia sia pure parziale alla città per millenni punto di riferimento per gli ebrei sparsi nel mondo, e da anni annessa definitivamente allo Stato ebraico. Ma nella battuta su Gerusalemme c’era una frecciata anche per il presidente americano. Attraverso John Kerry, il segretario di Stato, Barack Obama aveva ribadito poche ore prima, la necessità di uno Stato palestinese, di cui parte di Gerusalemme potrebbe appunto essere la capitale.La polemica con la Casa Bianca sul nucleare iraniano, portata da Netanyahu al Congresso di Washington, potrebbe essere almeno in parte disinnescata se gli Stati Uniti non arrivassero, entro fine mese come stabilito, a un accordo con Teheran. E non è scontato. L’estensione delle colonie in Cisgiordania, e il continuo aumento della loro popolazione, creano invece una netta e permanente divergenza con Obama sul problema palestinese. Problema destinato a ritornare in primo piano perché in aprile Abu Mazen, presidente dell’Autorità di Ramallah, il più mite e conciliante capo palestinese, dovrebbe presentare una denuncia contro Israele al Tribunale criminale internazionale per l’occupazione della Cisgiordania. Gli Stati Uniti l’hanno ritardata a lungo, minacciando anche di sospendere gli aiuti alla Palestina.
Non pochi intellettuali, tra i quali lo storico Zeev Sternhell, sostengono che la vittoria dell’Unione sionista, la coalizione di centrosinistra, non cambierebbe nulla. O molto poco. Isaac Herzog e la sua alleata Tzipi Livni non si sarebbero impegnati molto nel precisare il loro progetto sul problema palestinese. Si sono limitati a esprimere la vaga intenzione di rianimare il processo di pace. Per Herzog e Livni, in caso di vittoria primi ministri a turno, sarebbe comunque più agevole normalizzare i rapporti con il vasto mondo che, come Amos Oz, considera i due Stati affiancati una questione essenziale.